la Repubblica, 11 luglio 2022
L’etica di Saramago
Un giorno, nell’au tunno del 1979, all’età di 57 anni, JoséSaramago passò in Portogallo dalla Spagna lungo il fiume Duero. Lì arrestò la sua vettura sulla linea di confine, metà in Portogallo e metà in Spagna, e fece un discorso ai pesci.
Saramago declamò (con sbigottimento della guardia di frontiera presente alla cerimonia): «Da una terra all’altra dovrò prestare molta attenzione a ciò che è uguale e a ciò che è differente, sia pur facendo salve, com’è umano e come del resto avviene fra di voi, le preferenze e le simpatie di questo viaggiatore, che non è certo legato a doveri di amore universale». Saramago immaginò di pregare per una attenta guida etica del viaggiatore; in realtà, come sapevano i suoi lettori, enunciava le sue regole per fare letteratura, e le due “terras” alle quali fece riferimento erano non soltanto i due Paesi della Penisola, ma anche i regni dei fatti e della finzione.
Per uno scrittore, cambiare il mondo con le parole fa parte a tutti gli effetti del suo mestiere, unica strategia che gli è consentita usare quando segue i suoi personaggi. Shakespeare ricordava il potere dei bardi irlandesi, che «fanno rimare i topi con la morte». Nel settimo secolo, avendo scoperto che i topi gli avevano divorato la cena, il grande poeta irlandese Seanchan Torpeist su due piedi ne fece a pezzi una decina, recitando un verso che iniziava con queste parole: «I topi hanno musi appuntiti, eppure sono lottatori mediocri».
Lo stesso Saramago avrebbe potuto immaginare questa dimostrazione poetica del potere della parola. Contro i topi o i dittatori, contro i falsi miti o la falsa geografia, gli scrittori possono portare il cambiamento, o perlomeno offrire un vocabolario al cambiamento. Tutte le rivoluzioni iniziano cambiando le parole.
Fino alle scoperte rivoluzionarie di Copernico, avevamo immaginato l’universo come un posto confortevole. Assisi al centro di tutto, gioivamo del ruotare dei paradisi sferici musicali di Platone sulle nostre teste e se, come Luciano o San Paolo, dovevamo viaggiare in su o in giù, verso il Paradiso o l’Inferno, lo facevamo nella tranquilla certezza di appartenere a un centro immobile scelto da dio, intorno al quale ruotava il Sole. Ai bei vecchi tempi, viaggiare nello spazio cosmico non richiedeva né tempo né spostamento fisico alcuno. Come Beatrice rammenta a Dante, nel regno di Dio ogni cosa è sempre qui e ora. Poi il centro dell’universo si spostò. Prima in un anello secondario del sistema solare, poi in una zona nuvolosa di una galassia minore e infine in un angolo lontano di un universo in costante espansione. Mentre ancora percepivamo che tutto ruotava attorno a noi, ci rendemmo conto al tempo stesso che la Terra sulla quale abitavamo era la Siberia del cosmo. Quella presa di coscienza non ridusse il nostro desiderio di viaggiare. «Tutti vogliono andarsene dalla Siberia» disse una volta Joseph Brodskij. Forse, non tutti sulla Terra sognano di andarsene, come devono fare oggi moltiucraini, ma più e più volte, per generazioni, abbiamo immaginato vari modi di andare lassù, oltre le costellazioni, nell’oscurità inesplorata, soltanto per vedere come è, percorrendo le costellazioni tracciate secondo quel che conosciamo. Da questo punto di vista, sulla scia dei grandi esploratori portoghesi, Saramago è uno dei cartografi più attenti della letteratura.
InUna zattera di pietra, Saramago esclama: “Mio Dio, mio Dio, come sono collegate tutte le cose di questo mondo, e noi che pensiamo di tagliarle o di annodarle quando vogliamo, unicamente per nostra volontà, ecco qual è il più grosso errore, e quante lezioni abbiamo avuto del contrario, una riga per terra, migliaia di storni,un sasso lanciato in mare, un calzerotto di lana turchina, ma a ciechi mostriamo, a gente incallita e sorda predichiamo». Una delle più riuscite invenzioni di Saramago sul cambiamento è il romanzo, già citato, La zattera di pietra.
Come forse ricorderete, vi si racconta la storia della Penisola iberica che un giorno si stacca dall’Europa e galleggia, seguendo le correnti, fino a trovarsi a metà oceano, tra il Sudamerica e l’Africa, dando così un senso inatteso e rivoluzionario alla battuta di Luigi XIV riguardo l’ascesa al trono di Spagna di suo nipote: «I Pirenei hanno cessato di esistere». L’Europa è rimasta mutilata. «Il Portogallo frastagliato, sospeso, la Spagna scardinata a sud, e le regioni, le province, i distretti, il grosso pietrisco delle città maggiori, il pulviscolo dei paesi e villaggi, ma neanche tutti, ché molte volte la polvere è invisibile a occhio nudo…». Ciò che è vero è spesso invisibile agli occhi. «La penisola scende verso sud lasciandosi dietro una scia di morti di cui è innocente, mentre nel ventre delle sue donne continuano a crescere quei milioni di bambini che innocentemente ha generato». Se Saramago credeva in un’Europa unita, vi credeva come in una cosa da auspicare solo quando le circostanze di allora fossero cambiate. Per come è adesso, il concetto di “integrazione europea” era, secondo Saramago, un “errore disdicevole” perché, così sosteneva, «non può esservi autentica unione quando ci sono Paesi che comandano e Paesi che obbediscono». Poi aggiunse: «Prima di tutto sono portoghese, in secondo luogo sono iberico e terzo, e solo quando lo sento, sono europeo». Ha ammesso questa sua duplice identità, come ha ammesso la duplice geografia che ha esplorato in Viaggio in Portogallo.
Per Saramago la geografia deve essere costantemente reinventata.
Questo è il paradosso dell’arte letteraria: il nostro mondo terrestre è tremendo, ma capace di definire sé stesso e i suoi limiti, e facendo ciò fa da cornice a tutto ciò che è altrove, permettendo a noi, suoi abitanti insonno-liti, di discernere ciò che potremmo voler raggiungere, che si tratti della vetta di una montagna davanti a noi o delle “cose belle”, come le chiama Dante, negli insondabili universi sopra di noi. Una volta lasciato questo mondo (o questa foresta, o questo continente noto come Europa), una volta entrati nello spazio delle costellazioni che nascono e delle galassie che muoiono, delle isole venute al mondo e delle nazioni in agonia, entriamo però in un mondo senza confini. Lì ogni cosa è a uno stesso tempo delimitata e in espansione, non sconfinata (ci dicono gli scienziati), ma con confini impossibili da concepire con la nostra mente. Lì vogliamo viaggiare dal nostro “qui” che ci è familiare, verso un posto dove i sogni di astrofisici e teologi e scrittori come Saramago si mescolano in felice fraternità. Lì (come sulla Luna di Ariosto) sono tutte le cose che abbiamo perduto o che crediamo di aver perduto: la fiducia nella saggezza, la possibilità della felicità, la speranza di un futuro migliore. Noi viviamo quaggiù.