La Stampa, 11 luglio 2022
Intervista ad Amitav Ghosh. Parla del pianeta e delle speranze di salvarlo (che non ci sono più)
C’è un triste e quasi rassegnato stupore nelle parole di Amitav Ghosh, lo scrittore e saggista indiano, narratore eclettico che sulle ferite che l’uomo ha inflitto alla Terra, ha scritto diversi libri. È stupito perché «la regione dolomitica non ha una storia di gravi disastri alle spalle». Eppure, il seracco che si è staccato dalla Marmolada travolgendo e uccidendo undici persone, è più di un campanello d’allarme, avverte lo scrittore che ha seguito ogni attimo dalla sua casa americana delle operazioni sulle Dolomiti orientali. «L’ultima volta che sono stato in Italia prima della pandemia nel 2019 ero a Cortina, sull’altro versante, amo quelle terre, le conosco e so quanto sono diventate vulnerabili. Il Veneto è un hotspot del cambiamento climatico, fra i pericoli per Venezia, il vento che devasta boschi sradicando gli alberi, e ora i 10 gradi in vetta alla Regina delle Dolomiti che diventano letali». Purtroppo, però, ci stiamo abituando all’estremo, spiega Ghosh, vogliamo conviverci perché non siamo in grado di affrontare di petto il problema, invertire il corso degli eventi. «Bisognerebbe fermare subito l’estrazione di carbone, ma chi lo fa?», quasi sospira lasciando uscire uno sprazzo di rassegnazione. I giovani si sentono traditi da una vecchia generazione preoccupata dal costo del carburante e dallo stile di vita da difendere; l’America è immersa in problemi – come la frequenza delle sparatorie – che stanno relegando i temi climatici in fondo all’agenda. Il tutto in nome proprio di quella abitudine al benessere considerato un diritto garantito che fa dire all’ex presidente Trump davanti alla folla adorante dell’Alaska che se gli Oceani si innalzano, avremo più case con vista mare.
Ghosh, scienziati e ricercatori da decenni danno l’allarme denunciando che il pianeta è incamminato, e a passi lunghi e ben distesi, verso il punto di non ritorno. C’è una strategia globale efficace per rallentare almeno il ritmo?
«Assolutamente no. Fenomeni estremi come quelli visti in Veneto trovano un corrispettivo anche negli Stati Uniti. Il fiume Colorado ha una portata pari a un terzo del normale e intere regioni dell’Ovest stanno esaurendo le scorte d’acqua. La California è costretta a razionare. La responsabilità non è solo del cambiamento climatico».
Di chi è, allora, se non c’è abbastanza acqua?
«Gli Stati Uniti ignorano che sono stati loro stessi, i governi, le aziende, il mondo dell’agricoltura a determinare questa catastrofe. C’è stato negli anni uno sfruttamento indiscriminato della falda acquifera per poter produrre sempre di più, aumentare i cicli e oggi quelle stesse falde sono vuote e i fiumi, come il Colorado appunto, sono rigagnoli».
Le nuove generazioni sono molto più motivate di quelle dei loro padri e nonni nel difendere il pianeta.
«Stanno facendo cose importanti, sensibilizzano. Il movimento Extinction rebellion è una boccata d’ossigeno. Mi ha colpito moltissimo un ragazzo italiano: Giorgio Brizio, ha 21 anni e ha scritto un bellissimo libro (Non siamo tutti sulla stessa barca, Slow Food edizioni). L’ho incontrato al Salone del Libro di Torino e con lui c’erano tanti giovani. Una bella ventata di freschezza. Ma non ovunque è così».
Perché?
«Gli Stati Uniti per decenni sono stati i leader della lotta al cambiamento climatico. Anche se la politica – penso a Trump – andava in direzione opposta, c’è sempre stato molto fermento, studi, mobilitazione nella società civile. Ora però i ragazzi sono traumatizzati dalle sparatorie, dalla diffusione delle armi, dai bollettini quotidiani delle vittime delle stragi, l’ultima pochi giorni fa a Highland Park. I ragazzi sentono che i loro genitori – intesi come generazione – hanno abdicato all’idea di garantire loro protezione. E poi c’è una questione politica».
Il pronunciamento della Corte suprema...
«È incredibile. Hanno cancellato, con un colpo di penna, il potere dell’Epa (agenzia per l’ambiente) di fissare i limiti di emissioni delle centrali elettriche e a carbone. L’America è stata il Paese che aveva fissato gli standard per la buona governance climatica, ora sta facendo esattamente l’opposto».
Il presidente Biden però ha nominato un inviato speciale per il clima, John Kerry, e continua a pigiare il tasto delle rinnovabili e della transizione energetica. Non sta funzionando?
«Biden è stato astuto, sapeva che parlare di clima gli avrebbe attirato simpatie e voti dei giovani. Ha promesso e poi ha tradito».
Come?
«Ha concesso nuove licenze per le trivellazioni in Alaska e nel Golfo del Messico, e ha favorito lo sfruttamento di nuovi impianti estrattivi per i combustibili fossili. All’inizio Biden ha deluso le aspettative perché sembrava non essere in grado di mantenere le promesse, poi le ha addirittura tradite».
Spezziamo una lancia a favore di Biden: converrà che la guerra in Ucraina ha complicato non poco i piani non solo americani, ma anche degli europei, di una rapida transizione verso l’energia pulita. Le spinte inflazionistiche, il timore di restare al freddo quest’inverno non lasciano ampi spazi di manovra ai governi se non quello di posticipare l’uscita dall’approvvigionamento di gas e greggio, non pensa?
«Il tema è centrale. Sono stato di recente in Italia e mi è capitato di sentire tassisti e tanta gente comune lamentarsi per il caro benzina e per l’aumento del costo della vita. I prezzi così alti non si sono mai visti e devo ammettere che pur frequentando l’Italia da tanto tempo, non ho mai percepito una rabbia così diffusa e profonda verso la classe politica. Questo è un elemento destabilizzante per il futuro. E l’Italia è in buona compagnia, basta guardare le vicende francesi. Ma bisogna essere realisti. Dalla guerra in Ucraina non si uscirà in tempi rapidi e soprattutto non sappiamo come il mondo ne uscirà. La prima conseguenza è stata comunque relegare l’agenda climatica, benché si dica altro, in secondo piano, sposando invece politiche più incisive nell’immediato per venire incontro alle esigenze degli elettori. L’America sta pensando a togliere i dazi alla Cina, altri hanno riportato in auge il carbone, altri ancora hanno rafforzato le partnership con i Paesi produttori di gas e petrolio. Il clima è in questo scenario un attore non protagonista».
Pochi temi come le azioni di contrasto al surriscaldamento del pianeta necessitano una collaborazione fra tutti i Paesi. Il clima – con le varie Conferenze che si sono succedute e con la prossima al Cairo – è diventato terreno di scontro e di confronto fra le grandi potenze….
«La fermo subito. Nemmeno di incontro. Alla Cop26 di Glasgow tre importanti leader come Putin, Xi Jinping e Bolsonaro non c’erano».
Cosa significa?
«Che il mondo con i suoi equilibri che conoscevamo è sparito, è evaporato».
Crede anche lei che la globalizzazione sia al passo d’addio?
«La globalizzazione della stagione 1999-2020 è stata semplicemente un’appendice di una precedente forma di globalizzazione, ovvero il colonialismo. Ora siamo in una dimensione diversa, multipolare dove le vecchie consorterie non esistono più, le regole tradizionali non si applicano più».
E come le sembra questo mondo cui ci stiamo affacciando?
«Nuovo e molto pauroso».
Da dove prende la paura?
«Le faccio l’esempio della guerra in Ucraina: se la Russia dovesse perdere, potrebbe ricorrere al nucleare come ultima risorsa. Se gli Usa e Kiev invece fossero sconfitti, chi può immaginare cosa accadrebbe? Siamo veramente in un nuovo contesto in cui confini sono ignoti e per questo spaventosi».
La prima cosa da fare per invertire rotta sul clima?
«Fermare l’espansione delle miniere di carbone»
È realistico?
«Sfortunatamente, Cina e India non hanno risorse di petrolio e gas per fare questo passaggio. Servirebbe una simultanea espansione delle energie rinnovabili. Mi sembra fantascienza, al momento».