La Stampa, 11 luglio 2022
Intervista a Luciana Castellina. Dice di fare figli
Quando ha compiuto novant’anni, tre estati fa, a Luciana Castellina, scrittrice, giornalista e politica, è stato chiesto di dire qualcosa alle ragazze, alle donne giovani. Risposta: «Fate figli».
Lo ha detto spesso, in tutta la sua vita, lunghissima e appassionante, di militanza e scrittura, sempre dalla stessa parte: a sinistra, quella profonda. Una volta disse: «Meglio far figli che mattonelle».
Consiglierebbe ancora la maternità, in mezzo a questa guerra su tutti i fronti che è diventata la nostra vita?
«Certo. Convintamente».
Perché?
«Perché è molto bella. È un privilegio che le donne hanno e non devono privarsene».
Ha visto gli ultimi dati Istat? Più che un privilegio, sembra una fatica di Ercole.
«Lo so bene, ma so anche che molte donne soffrono perché aspettano a lungo per farli, poi non ci riescono e si pentono. Allora io dico: fateli, fateli pure a diciassette anni, se li volete, e qualcuno poi provvederà».
E chi non li vuole?
«Ha altre sofferenze. Vede, questo Paese si accorge del malessere delle donne soltanto quando arrivano i dati sulla denatalità, come se l’unica cosa che abbiamo a cuore, che riempie la nostra vita, che ci realizza fossero i figli. Non è così, naturalmente, ma è vero che per chi li ha è quasi impossibile fare altro. Il diritto alla maternità deve tutelare anche questo: si deve poter diventare madri senza sacrificare tutta la propria vita. Mi fa sempre sorridere quando leggo i toni entusiastici con cui si riporta l’accesso delle donne al mondo del lavoro, il fatto che cominciano a diventare maggioranza nei cda, che arrivano ai vertici di molti settori prestigiosi: quando vado a vedere le loro biografie, noto che sono quasi tutte senza figli. I manager maschi, i figli, li hanno eccome».
Metà delle donne non lavora, peraltro. E nella metà delle coppie non anziane, lavora soltanto l’uomo.
Che poi non è vero che non lavorano: hanno sulle spalle tutto il lavoro di cura. Come sempre. Il Covid è stato la prova del nove: c’era un bisogno maggiore di assistenza ed automaticamente se lo sono assunto le donne. Ma non è successo dappertutto, o almeno non nello stesso modo. Tutte le volte che leggiamo i dati nazionali, dobbiamo ricordarci che esiste una differenza profondissima tra il Nord e il Sud. I tassi di occupazione femminile sopra Roma sono simili a quelli nordeuropei. E vale per tutto: la questione meridionale è aperta, e pure aggravata».
Quando la Corte Suprema americana ha ribaltato la Roe v. Wade, molti hanno scritto che in Italia non accadrebbe mai niente di simile.
«L’Italia è più democratica degli Stati Uniti, ma anche da noi in questi anni qualcuno ha provato a smantellare il diritto all’aborto, così come è successo lì: la sentenza della Corte Suprema è la fine di un processo che dura da anni, e che è stato sostenuto da una corposa compagine di associazioni e movimenti».
La 194, però, è una legge che traballa. Un compromesso.
«Non è vero. Quando venne approvata, era la legge più avanzata d’Europa, per una ragione che Emma Bonino non ha voluto vedere: sanciva, unica in Europa, che il diritto all’aborto doveva essere garantito dal servizio pubblico».
Io però mi riferisco all’obiezione di coscienza, che quel diritto lo rende monco, spesso impraticabile.
Ma anche l’obiezione di coscienza è un diritto e non lo si poteva negare allora, e neanche si può fare adesso. Sa come si risolverebbe tutto? Investendo nella sanità: se ci fosse più personale, gli obiettori non inficerebbero niente.
E allora da cosa dobbiamo difendere la 194?
«Prima di tutto dobbiamo fare in modo che non la tolgano dal servizio pubblico».
Ma quell’allargamento di cui parlava lei non sarebbe facilitato se l’aborto diventasse praticabile anche nelle strutture private?
«A me la sanità privata non convince. Io dico che si deve scommettere su quella pubblica».
Cosa pensa del nuovo femminismo?
«Mi interessa. Ma vedo che le ragazze si sentono al sicuro, molto di più di quanto lo sono davvero, semplicemente perché la rivoluzione dei costumi le rende più libere (di muoversi, di vestirsi come vogliono, di fare sesso). Ci arrivano più tardi, quando entrano nel mondo del lavoro, a rendersi conto del lavoro che c’è da fare».
È tanto?
«È sempre tanto. Anche perché mi sembra evidente che sia ormai impossibile ignorare il movimento delle donne e che la loro sia l’unica rivoluzione vittoriosa del nostro tempo. Per terribile che sia, l’aumento dei femminicidi certifica proprio questo: le donne si ribellano sempre di più, e gli uomini questo non riescono a sopportarlo, e allora le ammazzano. E poi, pensi al #Metoo: le vittime di violenza sono state credute, potenti uomini di Hollywood sono finiti in galera. Ai miei tempi sarebbe stato inimmaginabile».
E com’erano i suoi tempi?
«Io mi nascondevo le tette: era meglio passare per maschio».
C’è qualcosa di maschile nei nuovi femminismi?
«L’ambizione, per me incomprensibile, di voler dimostrare che sappiamo fare le stesse cose che fanno i maschi.Punterei a fare le cose che solo noi sappiamo fare».
Esiste un potere femminile?
«Certo. Essere donna fino in fondo. La mia generazione non ha potuto, ed è per quello che ci camuffavamo, eravamo maschili. Ora possiamo mostrare la nostra specificità. Dobbiamo farlo: serve a individuare, e poi tutelare, i nostri diritti e i nostri doveri».
Crede nell’alleanza tra il movimento delle donne e quello LGBTQ+?
«Certo. Condividiamo una difficoltà: dover combattere contro chi si ama. Mentre per il proletariato il nemico era la classe dei padroni, per le donne l’avversario è il maschio. Liberarsi di chi si ama, quando si fa una battaglia, o una rivoluzione, è difficilissimo».
Per quale mondo dobbiamo lottare?
«Di questo sono sicura: un mondo diverso da quello in cui viviamo. Non possiamo più sostenere un modello di produzione di merci: dobbiamo produrre servizi. E poi dobbiamo accogliere le esigenze femminili: va cambiato tutto, pure i mattoni, pure come costruiamo le case. Io faccio incontri con gli edili alla Casa internazionale delle donne».
Da dove si comincia?
«Dall’abbattimento del potere di chi ostacola questo cambiamento strutturale» —