La Stampa, 11 luglio 2022
I numeri del lavoro femminile non crescono
La crescita economica passa per la forza lavoro femminile, che però scarseggia in Europa, come, ancor più, in Italia. C’è un potenziale non sfruttato, tutto «rosa», che soprattutto il nostro Paese fatica ad attivare. Il risultato si paga in termini di competitività. Numeri e indici condannano il sistema Paese, agli ultimi posti in classifica per lavoratrici attive e ritmi di crescita. Una donna su due di età compresa tra i 20 e i 64 anni è fuori dal mercato del lavoro, e il risultato è in Prodotto interno lordo strutturalmente debole rispetto ai partner di Eurozona e Unione europea.
Prendendo in considerazione la situazione pre-pandemica, il tasso occupazione femminile tricolore si attestava al 53,2%, contro medie europee del 66,3% (Ue) e 66,4% (area euro). Solo per la Grecia Eurostat registra un indice più basso. L’aumento del Pil reale italiano si fermava allo 0,9%. Per fare raffronti, Francia e Irlanda crescevano del’1,9% e del 9% per effetto di un contributo femminile al sistema produttivo pari al 68,9% e 67,9% delle donne in età da lavoro. Il 2019, anno di confinamenti e spegnimento dell’economia, ha visto un incremento delle quote rosa al lavoro in Italia dello 0,7% (53.9%), e mentre nonostante tutto l’Ue conosceva una crescita economica dell’1,5%, l’Italia appena dello 0,5%.
La correlazione tra attività lavorativa della donna e crescita economica non è né casuale né pretestuosa. Tra uomini e donne c’è un divario occupazionale di genere dell’11,3%. La Commissione europea stima una perdita economia dovuta proprio a questo divario occupazionale di genere in 370 miliardi di euro all’anno. Viceversa, «il miglioramento della parità di genere potrebbe portare a un aumento del Pil fino a 3,15 trilioni di euro entro il 2050». Ecco perché si richiedono interventi che siano efficaci, strutturali, e rapidi. «Agire è un imperativo sia sociale che economico», il messaggio che arriva da Bruxelles, con Roma tra i principali destinatari.
Alla fine del 2021 l’Italia sconta ancora ritardi. Figurano 9,2 milioni di lavoratrici, la metà di quelle che può vantare la Germania (18,4 milioni), più di un terzo in meno di quelle in forza in Francia (13,1 milioni). Se poi si osservano gli indici occupazionali nei settori chiave di scienza e tecnologia, quelli dove si produce innovazione, il tasso tricolore è del 32,1%. È inferiore a quello tedesco, francese, delle repubbliche baltiche, dei Paesi Benelux e dei Paesi scandinavi, inferiore anche ai tassi degli Stati del blocco dell’est. La risposta a tutto questo è una e una sola. «È necessario aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro», insistono da Bruxelles. È vero per l’Europa, lo è ancor più per l’Italia.
Ci sono un richiamo implicito e uno esplicito per il Paese. Il primo è quello che emerge dai dati che vedono una partecipazione femminile al sistema economico-produttivo, il secondo è quello continuamente ribadito negli ultimi anni attraverso le raccomandazioni specifiche per Paese. Politiche occupazionali e riforma del mercato del lavoro è competenza degli Stati, e i vari governi sono stati sempre invitati a promuovere una maggiore e una migliore presenza femminile, superando anche limiti culturali evidenziati dal commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni, facendo il punto sui progressi fatti sulla realizzazione degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Sulla parità di genere «l’Ue si è purtroppo allontanata dagli obiettivi». Oggi «le donne hanno ancora meno probabilità di essere occupate rispetto agli uomini», e questo perché «le responsabilità di cura sono il motivo principale per cui le donne non fanno parte della forza lavoro».
La donna paga il fatto di essere donna e la possibilità di essere madre, e l’assenza di misure per famiglia e lavoro pesano sull’Europa e ancor più sull’Italia. L’esecutivo comunitario lo sa bene. Per questo, in occasione della giornata internazionale della donna di quest’anno, il commissario Ue per il Lavoro, Nicolas Schmit, ha esortato agli Stati a «concentrarsi sulle politiche per promuovere l’assistenza all’infanzia a prezzi accessibili e l’uguaglianza di genere».