il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2022
Memorie, leggende e scandali di Spagna 1982
Se, come ha scritto Oscar Wilde, “la memoria è il diario che ognuno porta sempre con sé”, il Mundial del 1982, in Spagna, è la storia che ti salta addosso. Inviato della Gazzetta, avevo 31 anni e seguivo gli avversari dell’Italia. La Polonia di Zibì Boniek, il Perù, il Camerun. Nel trambusto delle prime mischie, Antonio Corbo, collega del Corriere dello Sport-Stadio, mi offrì i «servizi» di un tale Waclaw Palik, polacco in viaggio di studio. Ne parlai con Lodovico Maradei, capo-tribù della rosea. Mi disse: “Perché no?”. Palik si rivelò prezioso nella traduzione delle interviste, Boniek era passato alla Juventus e dunque, nelle conferenze, lo si circondava e lo si incalzava. C’era però un problema: con lo scudo dell’interprete, non è che ogni risposta potesse diventare la carica del Settimo Cavalleggeri. Peccato.
Ero di ronda a La Coruna, sulla costa atlantica della Galizia, terra che ha prodotto due generalissimi: uno geniale, Luisito Suarez, e l’altro bestiale, Francisco Franco. Accompagnavo le squadre a Vigo, dagli azzurri. Allora, le teste di serie godevano del fattore campo e non giravano. Al termine di Italia-Camerun ci fu ressa attorno al ct Jean Vincent, francese come i giornalisti che lo accerchiavano. Il “modo quasi vigliacco” di attendere gli eventi fino all’1-1 dell’eliminazione non lo avevano proprio digerito. Sin lì era andato all’attacco di tutto e di tutti, e d’improvviso, sul più bello, si era tirato indietro: un mistero. Due anni dopo, Oliviero Beha e Roberto Chiodi dedicarono al caso un libro-inchiesta, Mundialgate, che avrebbe scatenato un putiferio. Svelarono che il Camerun era stato ammorbidito. Ma da chi? Gli indizi conducevano a faccendieri senza scrupoli, sponsor impauriti, federali imbarazzati. Cinquanta(mila) sfumature di grigio. Ancora oggi, quando sfoglio la sceneggiatura di quel mese, penso alla “fucilazione” di Vincent.
L’eco della caccia a Enzo Bearzot arrivava smorzata, anche se di turno a Pontevedra, alla vigilia delle vigilie, mi ero occupato dell’accoglienza, dell’atmosfera, del cosiddetto colore. “Sui tetti delle case circostanti, cecchini pronti a far fuoco. Mitra spianati e rigorosa sorveglianza 24 ore su 24”. Wow. Per tacere dei leoni indomabili di Yaoundé. Frugando in archivio, ho sperato caldamente di aver schivato la trappola, fumettistica, dei riti vodoo, delle fattucchiere, dei pentoloni con dentro l’uomo bianco. “È sbarcato il Camerun ma non ha lo stregone: temevo peggio. La corsia preferenziale verso Boniek era una pacchia. Non si poteva non chiedergli, al netto del canonico paraponzi social-popolare, una previsione sul Mondiale. “Lo vincerà una squadra ignorata dai pronostici, l’Unione Sovietica o la Spagna”. Nessuno è perfetto.
I tre pareggi della fase a gironi. Un disastro inverecondo, un fiasco intollerabile: dal fronte e dalle retrovie piovevano censure feroci, e tenete presente che la tv era una pagliuzza, non la trave odierna, i telefonini non esistevano e di Internet farneticavano i maniaci. Eppure mi è capitato di rileggere il parere di Antoni Piechniczek, ct polacco, dopo lo 0-0 del battesimo: “Abbiamo guadagnato un punto, non vi avevo mai visto giocare così bene. Tattica, tenuta, ritmo: ci avete surclassato in lungo e in largo”. Pazzo lui o pazzi noi?
A Barcellona, a Barcellona. L’Argentina, il Brasile. Raccontai la marcatura di Claudio Gentile su Diego Armando Maradona e poi, il fatidico 5 luglio, le emozioni di Dino Zoff, con quella parata là, su Oscar (dal vivo, in cronaca, mi era scappato Cerezo), che cambiò un mondo, il nostro, e il Mondiale. E quindi di nuovo la Polonia, da Vigo al Camp Nou. Nonostante Zibì fosse squalificato, recuperai in fretta Palik, il traduttore. Non c’era posto in albergo, lo ospitai nella mia camera, altro che Paolorossi & Antonio Cabrini alla finestra della Casa del Baron di Pontevedra (che spesso usciva Pontedera).
Le partite aiutavano a sognare. Il traffico, meno: un giorno, fra le Ramblas, il carro attrezzi mi portò via l’auto due volte, non una. Sempre sulla notizia, forse. Maledettamente distratto, di sicuro. Madrid, infine. La sera dell’11 luglio. Il Bernabeu e la Germania Ovest. La Nazionale bivaccava all’hotel Alameda, attaccato all’aeroporto. Piombò Gianni Agnelli, figuratevi lo scodinzolio, il miagolio, il pio-pio. “Con chi ha parlato, Avvocato?” domandò uno del plotone (non certo di esecuzione). “Solo coi nostri”, riferito al sestetto juventino. Ah beh, sì beh. Dalla piccionaia dell’arena narrai il duello, a distanza, fra Pablito e Kalle Rummenigge. Se lo aggiudicò Paolino, tornato signore dei tranelli. La musica delle Olivetti fece da colonna sonora all’urlo di Marco Tardelli e agli zompi ultras di Sandro Pertini. Todos caballeros, naturalmente. Ci aspettavano amnistie ed elegie, conversioni e ritrattazioni.
Fu un Mondiale da mediano, il mio, su e giù per la Spagna con coloro che avrebbero dovuto farcelo perdere. Sono già 40 anni, ma “non riesco a ricordare di dimenticarlo”.