La Lettura, 10 luglio 2022
Intervista a Colson Whitehead
Se è vero che la misura delle nostre vite è il linguaggio, come disse Toni Morrison nel discorso di accettazione del Nobel nel 1993, allora Colson Whitehead è un mago in grado di fare apparire davanti ai nostri occhi, nello stesso istante, il passato e il presente. Basta leggere i due romanzi che hanno consegnato il suo nome alla storia della letteratura — La ferrovia sotterranea (Sur, 2016) e I ragazzi della Nickel(Mondadori, 2019), con cui ha vinto due Pulitzer – per fare un salto nell’America della schiavitù e delle leggi Jim Crow e trovarci un pezzo di XXI secolo. «La Grande Guerra era sempre stata quella tra i bianchi e i neri. E sempre lo sarebbe stata», scrisse con tono da oracolo nella Ferrovia, alludendo a un passato che non passa mai. La storia gli ha dato purtroppo ragione. Il corpo nero continua a essere oggetto di un disprezzo radicato prima di tutto nelle istituzioni: la fotografia che meglio racconta il presente americano è quel ginocchio premuto sul collo dell’afroamericano George Floyd il 25 maggio 2020 a Minneapolis.
Non è un caso che Whitehead sia tra i protagonisti della nuova edizione di Letterature Festival, in programma allo Stadio Palatino di Roma nel corso di cinque serate, dal 12 al 21 luglio, il cui tema portante è proprio il racconto del mondo contemporaneo. Autore di una decina di opere tra romanzi e saggi – il libro più recente è Il ritmo di Harlem (2021, Mondadori), con protagonista Ray Carney, un commerciante di mobili invischiato nella criminalità locale nella Harlem degli anni Sessanta – Colson Whitehead risponde a «la Lettura» dalla sua casa di New York, alla vigilia del viaggio in Italia.
Il titolo di questa edizione di Letterature Festival è «Tempo nostro». Come giudica il presente?
«Terribile. L’America ha vissuto anni bui: ci siamo abituati alla corruzione e alla criminalità della presidenza di Donald Trump. Come il resto del mondo siamo stati messi a dura prova dalla pandemia. Ogni giorno si parla di regole per la detenzione di armi da fuoco: è il pane quotidiano di un Paese che vive atrocità come il massacro alla scuola di Uvalde, in Texas. Le divisioni politiche sono profonde, c’è una frattura nella società americana difficile da risanare. Ci vorrà molto tempo per raggiungere uno stato di normalità. Non sono ottimista, per niente».
È un tempo complicato per uno scrittore: la realtà è di gran lunga più travolgente e drammatica di una trama letteraria…
«Non sono in grado di predire gli effetti che la guerra in Ucraina e la pandemia avranno sulla letteratura. C’è chi affronterà il mondo di petto e chi non se la sentirà di esporsi. Per me è stato un periodo molto produttivo. Sono stato chiuso in casa per un anno e mezzo, nel momento più duro del Covid. New York, dove vivo, era svuotata, irriconoscibile. È come avere fatto un salto indietro di 40 anni, agli anni Settanta, quando la città era in bancarotta, criminali ovunque. New York era un luogo di disperazione. Ma dalle rovine sono nati il punk, la disco music, l’hip hop. È stato un tempo nel quale gli artisti erano messi a dura prova. Hanno risposto producendo nuove forme creative. New York torna sempre, che sia vittima della febbre gialla o degli attentati dell’11 settembre».
Dopo «La ferrovia sotterranea» e «I ragazzi della Nickel» è arrivato «Il ritmo di Harlem». Ha rispettato la sua regola: dopo libri «forti» si è concesso una trama leggera, ha raccontato il crimine con una vena di umorismo.
«Cerco sempre di alternare: a una trama difficile da digerire faccio seguire una storia più leggera. L’unica eccezione è stata la continuità tra La ferrovia sotterranea e I ragazzi della Nickel. La gioia del mio lavoro consiste nel raccontare il mondo attraverso forme narrative diverse. L’idea per Il ritmo di Harlem mi è venuta nel 2014, mentre cercavo un film da guardare una sera. Pensavo a Ocean’s Eleven. Mi sono chiesto se potessi scrivere un romanzo con una trama simile. Che siano libri sulla schiavitù, sugli zombie (Zona Uno, Einaudi Stile libero, 2012, ndr) o romanzi noir, l’importante è riuscire a parlare al lettore, a mandare un messaggio».
Nella prima parte della sua carriera ha affrontato temi contemporanei, poi ha rivolto lo sguardo al romanzo storico e al passato. E ora?
«I miei primi libri erano tutti contemporanei. Ero giovane, forse più arrabbiato, sentivo il bisogno di affrontare quello che non mi andava bene. Credo di avere esaurito ciò che avevo da dire sul presente. Adesso sono un uomo di mezza età, padre di famiglia, mi sono reinventato. Il romanzo storico è una sorta di secondo tempo della mia carriera. Ma non riesco a rimanere troppo a lungo in un territorio nel quale mi sento al sicuro. Sento il bisogno di mettermi alla prova anche io. Ho finito il nuovo libro in primavera. Si chiama Crook Manifesto. È un sequel del Ritmo di Harlem. Mi sono divertito a narrare Ray Carney. Questa volta lo seguiamo negli anni Settanta. Il libro si snoda attraverso tre storie che diventano una sola. È un romanzo nato durante la pandemia».
È cambiato Ray Carney?
«Ray è la stessa persona, con gli stessi difetti e le stesse qualità. La New York degli anni Settanta lo metterà a dura prova. È stato divertente immaginare in che modo avrebbe reagito. Harlem è ancora la mia musa. È bello sapere che dopo quasi 25 anni di scrittura io riesca ancora a inventare nuove trame».
Nel 2023 saranno 10 anni dalla nascita del movimento Black Lives Matter. Sono stati fatti passi in avanti in termini di uguaglianza sociale negli Usa?
«Non abbiamo fatto progressi in termini di uguaglianza in America. Non faccio parte del movimento, non sono in grado di darne un giudizio. Apprezzo i loro sforzi, il fatto che affrontino questioni urgenti come la violenza della polizia. Se guardiamo ai provvedimenti presi dal Congresso, o a quelli annullati dalla Corte Suprema, da ultima la sentenza Roe vs. Wade che garantiva alle donne la possibilità di abortire, non c’è molto da rallegrarsi. Negli anni Sessanta è stato approvato il Civil Rights Act, oggi non siamo ancora in grado di assicurare il diritto di voto a tutti i cittadini americani, specialmente ai neri. È un terribile indicatore di dove sta andando questo Paese. Ovvero dritto nel cesso».
Il Congresso riuscirà a limitare la circolazione delle armi da fuoco?
«Ci sono milioni di fucili semiautomatici in America. Anche se metti fuori legge la vendita per certe categorie ne rimangono in circolazione ancora troppi. La mia generazione non vedrà progressi. L’America è sempre stata violenta e razzista e lo sarà finché vivrò».
Come ha vissuto l’avvicendamento tra Donald Trump e Joe Biden?
«Sono felice che Trump non sia più presidente. Biden cerca di fare il suo lavoro, ha riportato una parvenza di normalità. Ma il mondo politico americano è pieno di ottantenni che hanno perso contatto con la realtà, non sanno dove vada il Paese».
Le è piaciuta la serie tv tratta dalla «Ferrovia sotterranea», diretta dal premio Oscar Barry Jenkins?
«È stata un’esperienza incredibile, io e Barry ci siamo capiti subito. All’epoca stavo scrivendo I ragazzi della Nickel, quindi non sono stato troppo coinvolto nella lavorazione. Quando ho visto il risultato finale ero stupefatto. Gli attori, la musica, la fotografia sono fantastici. Da un parte ero soddisfatto, dall’altra conscio che un adattamento non si avvicinerà mai alla versione originale».
«Il ritmo di Harlem» sarebbe perfetto per la televisione.
«Mi piacerebbe che prima diventasse una serie di libri».
Ad appena 52 anni è considerato uno dei maestri della narrativa contemporanea. Che bilancio fa di questi ultimi 23 anni, dall’esordio con «L’intuizionista», nel 1999, a oggi?
«L’intuizionista è il miglior libro che potessi scrivere a 27 anni, La ferrovia sotterranea il migliore che potessi scrivere a 45. Il successo della Ferrovia mi ha permesso di dedicarmi esclusivamente alla scrittura, di non dover fare un secondo lavoro per guadagnarmi da vivere. Adesso posso permettermi di gironzolare per casa e pensare alla prossima trama».
Si aspettava di vincere il secondo Pulitzer nel 2020, dopo quello del 2017?
«Per nulla. Stavo facendo un prelievo del sangue quel giorno. Il telefono stava per esplodermi in tasca dalla quantità di chiamate e messaggi. Se ci penso faccio ancora fatica a crederci, è stato tutto così inaspettato e folle. Mi ripeto sempre: hai fatto un buon lavoro, Colson, ora non mandare tutto all’aria», ride.
Leggerebbe una versione emendata di «Huck Finn», come quella prodotta in America nel 2011 per evitare la parola «negro» nel testo?
«Nessuno legge una versione “purificata” di Huck Finn in America. È una follia. Il dibattito su chi può scrivere cosa, su come bisogna scrivere certe cose per non offendere determinate minoranze, mi annoia. Preferisco pensare ai miei libri».