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 2022  luglio 10 Domenica calendario

La lavanderia di Sirike e la soia dei Sun

La pulizia è un dogma per Petwa Sirike. Detersivo, ammorbidente, igienizzante già caricati e via con la centrifuga. Chi maltratta i macchinari, appoggia i piedi sui sedili o, peggio, lascia i cestelli sporchi è pregato di non tornare: «Abbiamo le telecamere, qualche cliente l’ho già avvertito». Una lavanderia self-service – è la sua regola ferrea – deve essere candida immacolata. 
È un piccolo passo per il quartiere del Giambellino, ma un grande progetto per questa giovane donna arrivata quattordici anni fa a Milano dall’Uganda, forse addirittura il primo di una serie. Ha cominciato poco più che ventenne con una borsa di studio e un master in Business Administration all’Università Cattolica, ha lavorato nel reparto commerciale della compagnia aerea Meridiana, conserva tuttora un impiego alla Fiera di Rimini e, intanto, Sirike da nemmeno un anno è un’imprenditrice. «Non avrei mai pensato di farcela». 

Essere africana in Italia, racconta, significa non sentirsi all’altezza: «Ti sembra sempre di dover imparare, di non poter osare...». Finché non ha preso coraggio: «Perché non provo a buttarmi, a creare qualcosa?». Al principio ha investito in un appartamento, allestito come bed & breakfast. «Mi è servito come prima esperienza, soprattutto le recensioni positive dei clienti...». Petwa viaggia in Italia e in Europa, ragiona sulla possibilità di allargarsi nel settore fino a immaginare un ostello. Ma arrivano i tempi del Covid, «ho dovuto abbandonare l’idea». Nel mentre, segue dei corsi. «In Uganda internet non c’è o è troppo caro, qui invece ho potuto imparare online». Prende parte al progetto Bite per aspiranti imprenditori di origine africana, finanziato dalla Commissione europea in collaborazione con la Fondazione Ismu. Infine le arriva l’occasione giusta, un bando del Comune per un’attività con risvolti sociali nel quartiere Lorenteggio-Giambellino; e soprattutto la trovata che può funzionare (e che nella gara si colloca prima in graduatoria): Wonderlav, una lavanderia automatica per gli abitanti delle case popolari, troppo anguste e misere per ospitare elettrodomestici; un luogo dove italiani e stranieri, con l’epidemia in corso, possano portare a disinfettare abiti e lenzuola; una cabina d’ozono che sanifica e deodora passeggini, scarpe da ginnastica, sedie imbottite... 
Il socio è il suo compagno, Michele Re, ma è stata lei a trascinarlo, non viceversa. «A volte gli italiani sono meno intraprendenti degli immigrati...». Integrata dice di non sentirsi ancora appieno. «Quando mi vedevano in lavanderia al principio – ride – mi chiedevano se fossi la donna delle pulizie. Il servizio che offriamo però è molto apprezzato, i miei clienti mi stimano, mi rispettano...». La pulizia vince. «E il pregiudizio cade». 
Non è una regola che valga per tutte le imprese cosiddette «etniche», definizione discutibile che a lungo ha indicato attività avviate nel nostro Paese da cittadini stranieri. In base a un report recente di Unioncamere e del ministero del Lavoro, un’azienda su dieci in Italia può collocarsi in questa categoria. L’etichetta tiene però assieme realtà molto varie: da quelle che rispondono a nuove esigenze (come la lavanderia di Sirike che potrebbe diventare una catena) alle ditte che raccolgono e portano avanti settori abbandonati dagli imprenditori italiani, per esempio nel tessile; passando per le numerosissime attività minime, spesso estremamente deboli e di breve orizzonte, strozzate da una scarsa padronanza della lingua, da un impianto normativo non facile da decifrare, da un tessuto sociale alieno; per arrivare, infine, alle punte di diamante che mettono in campo il valore aggiunto delle competenze internazionali e sbaragliano la concorrenza. 

A riconoscere la bravura dei Sun sono persino gli ex nemici: per fare scorta di udon o salsa di soia, i ristoranti giapponesi in Italia ricorrono da decenni alla Uniontrade, solidamente fondata due generazioni fa nel Milanese da un immigrato dalla contea di Qingtian, Cina. 
Si chiamava allora China Trading ed era – nel 1985 – una apripista delle imprese, certamente una delle più ambiziose. L’intraprendente papà Sun – Tsi Hsi, conosciuto come «Luigi» – era arrivato con l’ondata degli anni Sessanta, che in città, in particolare in zona Canonica, poteva contare sull’appoggio dei «pionieri» dei Trenta e su una struttura già avviata di laboratori di pelletteria. È la stagione in cui debuttano i ristoratori cinesi, i primi due inaugurano nel 1962. La necessità di procurare il cibo delle origini non riguarda più solo un gruppo ristretto di famiglie, ma si allarga a possibili nuovi curiosi clienti. Sempre di più (oggi sono circa 800). Sun capisce rapidamente che per restare sul mercato è necessario differenziarsi. E così, osa spingersi verso l’Oriente estremo. Il racconto dell’impresa di famiglia lo fa il figlio unico, Sun Jun Jie (detto «JJ»), 32 anni, una laurea in Bocconi e un master a Londra, in grado di tradurre in strategie quelle che all’epoca furono intuizioni del padre. «Negli anni Ottanta e Novanta la collaborazione tra cittadini dei due Paesi asiatici era ancora un tabù – spiega —, ma mio padre amava molto la cultura giapponese...». Ancora aperte le ferite delle guerre, Taiwan, l’occupazione, la colonizzazione della Corea, la sconfitta di Tokyo e poi l’avvento di Mao Zedong nel 1949. Le relazioni diplomatiche tra le due capitali ripartirono solo nel 1972.
Nel mentre, il sino-milanese Luigi Sun importava birra, aceto, alga nori. «Gli piacevano – continua JJ – la correttezza, la linearità degli interlocutori giapponesi, molto diversi in questo dai cinesi o dagli italiani: poche sorprese, con loro è facile lavorare. E la fiducia la guadagni sul campo». La società oramai non solo «China» riesce nell’impresa culturale oltre che commerciale di convincere il Sol Levante. E oggi la ditta Sun è la più amata dai sushi restaurant, con il Giappone in cima ai Paesi di import. Segue la Thailandia, perché, nello stile di famiglia, il giovane Sun continua a diversificare. 

Il passaggio di consegne è stato doloroso, dovuto alla malattia e alla prematura scomparsa di Luigi. Ma JJ si è fatto onore. «Sono stato convinto dalla nascita – confessa – di fare il lavoro di mio padre, poi sono anche cresciuto immerso nella cultura italiana in cui ti spingono a fare quello che ti piace davvero, dal tennista al calciatore... Con il tempo ho apprezzato, però, la strada che era stata pensata per me». Molta responsabilità, 160 dipendenti diretti e indiretti per la gran parte italiani, un volume di affari stimato nel 2022 in cento milioni, «un controllo maniacale di gestione»; ma anche margini di «divertimento». Sun jr non lavora solo sul fronte asiatico: importa a Milano il pane originale degli hamburger in stile Usa, soddisfa le richieste di clienti latinoamericani, si preoccupa dei piatti tipici romeni. Ha cominciato l’espansione con le spezie per le grigliate dei filippini e le gelatine dolci; si è aggiornato procurando bevande di aloe vera, ed è alla ricerca continua. «La concorrenza ti costringe a non fermarti». Affina i cataloghi, propone ricette complete e non solo singoli prodotti; si allarga sui social, studiando video di TikTok che possano diventare tormentoni; gioca d’anticipo. La siccità, per esempio, dalla scrivania di JJ s’è vista almeno otto mesi fa, con le risaie italiane a secco e la necessità di importare di più dal Vietnam. Mettendo in conto difficoltà e dazi. E, ovviamente, nuove possibilità d’avventura.