La Lettura, 10 luglio 2022
L’equilibrio di Prato Chinatown toscana
Lo scrittore Edoardo Nesi per parlare della sua Prato inventa un paragone con la New York degli anni Trenta. «Solo qui da noi puoi vedere sindacalisti toscani di base che difendono operai pakistani sfruttati da cattivi imprenditori cinesi. Chissà in che lingua riusciranno a intendersi». La verità è che la storia ha voluto fare uno scherzo ai toscani e nel giro tutto sommato di pochi anni ha concentrato in una città da 200 mila abitanti in riva al fiume Bisenzio e a due passi da Firenze nientemeno che la terza più grande comunità cinese d’Europa, che nei numeri sta dietro solo a metropoli come Parigi e Londra. A Prato il 25,3% dei residenti non è di nazionalità italiana e la metà di questi è cinese (25-26 mila unità), ai quali però andrebbero aggiunti almeno i 7.500 discendenti di Confucio che si sono vaccinati contro il Covid esibendo solo il passaporto e non il regolare permesso di soggiorno. Dopo la comunità cinese, la seconda è per quantità quella albanese seguita dai pakistani, che negli anni Dieci di questo secolo hanno cominciato a sostituire gli operai asiatici nei capannoni del Macrolotto 1, la vecchia zona industriale pratese conquistata dalle lavorazioni tessili dei cinesi.
Prato, dunque, è sicuramente multiculturale. In passato si era parlato erroneamente di distretto parallelo, in realtà la storica imprenditoria locale rappresentava il top del mondo nel campo dei tessuti e delle stoffe, mentre le nuove piccole imprese cinesi (oggi se ne contano 5 mila) si sono collocate più a valle nella lavorazione del tessile e hanno inventato un loro modello di business, il cosiddetto pronto-moda. «E così grazie a prodotti essenziali nello stile e nella confezione i cinesi di Prato hanno scalato l’Europa, sono diventati i leader delle produzioni di fascia bassa vendute in Polonia, Ungheria, Romania e persino Germania» racconta Lamberto Gestri, ex presidente della Provincia e consulente dell’Associazione per l’Amicizia italo-cinese. «Lo testimoniano i camion e i furgoni con targa mitteleuropea che ormai da tempo immemore arrivano a Prato a caricare la merce». Qualcosa del genere avviene anche per il nostro Sud dove è facile trovare nei mercati di paese proprio il pronto-moda tosco-cinese.
Il Covid non ha modificato questo quadro («anzi direi che si è assestato»), l’industria dell’abbigliamento veloce ha retto alla prova, via via si è andata riorganizzando e non ha mollato nemmeno davanti ai blocchi dei porti cinesi e al semi-collasso della logistica. Le ditte più evolute dal punto di vista dello stile e dell’organizzazione aziendale si sono poi raggruppate in un’altra zona industriale, il Macrolotto 2 più vicino a Firenze, hanno investito sui loro brand, allestito i loro showroom, migliorato la qualità del prodotto, bonificato l’ambiente di produzione, aperto i canali dell’e-commerce e assunto decine e decine di operai in regola. Nella stamperia Prato è diventata un polo europeo di specializzazione, grazie a macchinari digitali si producono t-shirt, vestiti leggeri da donna e maglie che trovano un buon riscontro in tanti Paesi, persino in Danimarca. Mai come a Prato però vecchio e nuovo sono destinati a convivere: operano ancora in città tanti laboratori del tempo che fu, dove capita che gli operai dormano accanto alle macchine per cucire e dove la novità è che gli operai cinesi non vogliono più accettare quest’umiliazione e vengono sostituiti da pakistani. Che lavorano fino a 12 ore, magari con un contratto part time oppure senza contratto e con permessi di soggiorno che le autorità locali definiscono «traballanti».
Sono passati meno di 10 anni dal tragico rogo che il 1° dicembre del 2013 uccise 7 operai cinesi di una ditta di connazionali. Un incendio scoppiato per cause accidentali lasciò sul terreno cinque uomini e due donne che lavoravano in condizioni di schiavitù. Seguirono funerali che per una volta unirono la città senza alcuna differenza/distinguo e si videro cerimonie che sembrarono aprire una via del tutto nuova nella collaborazione tra le due comunità, con la convinta adesione delle autorità consolari cinesi. Tante di quelle premesse in verità sono rimaste sulla carta, lamenta Gestri, ancora oggi è necessario che la Regione Toscana dia vita a controlli a campione sulle condizioni di lavoro e le due comunità in città più che toccarsi alla fine si limitano a sfiorarsi.
I cinesi arrivati a Prato negli anni Novanta venivano tutti dalla provincia dello Zhejiang, nella Cina meridionale, e in particolare dalla città di Wenzhou. Potenza del passaparola. Di tempo ne è passato tanto, per cui ci sono state alcune migliaia di bambini nati da genitori cinesi in Toscana e siamo oltre la terza generazione. Una volta a rappresentare i cinesi c’era un’unica potente Associazione per l’Amicizia italo-cinese, adesso la rappresentanza si è sfrangiata e di associazioni ce ne sono una ventina. Quelle dei giovani sono le più coinvolte nell’integrazione, anche perché molti di loro sono avvocati, commercialisti e professionisti che hanno studiato nelle università italiane e ora aiutano i padri nelle pratiche amministrative, fiscali e di business. Un passaggio dalla manifattura al terziario gestito nella comunità e mettendo in riga i rampolli. Capita così che grazie all’attività di alcune associazioni ci siano ditte cinesi che collaborano al Prato Film festival o con il Museo Pecci e comunque si siano mobilitate durante la pandemia per favorire la vaccinazione. E alle elezioni del 2019 sono stati eletti in consiglio comunale per la prima volta due giovani cinesi: Teresa Lin laureatasi negli States e figlia di un pioniere del pronto-moda, e Marco Wong, imprenditore. I cinesi con diritto di voto erano a quel tempo 6-700 e i loro voti si sono riversati su Teresa e Marco che facevano parte di una lista collegata al sindaco Matteo Biffoni (Pd).
Al Covid i cinesi di Prato hanno reagito chiudendo subito, imponendosi la quarantena prima che le autorità decretassero il lockdown. In città si è vociferato che ciò fosse frutto delle notizie o persino degli ordini che arrivavano da Pechino ma, alla resa dei conti, una linea di comportamento così rigorosa ha permesso di limitare i danni e i decessi. I viaggi verso la patria, una volta a frequenza mensile, oggi si sono diradati e molti anziani sono tornati a stabilirsi in Cina. Ma, incamerati tutti questi dati e valutate le originalità del caso pratese, si può dire che la città abbia assolto un ruolo di laboratorio del multiculturalismo? È difficile trovare qualcuno che risponda affermativamente, tutt’al più si riconosce che in riva al Bisenzio si è stati capaci di superare i momenti più difficili della contrapposizione tra le due comunità e di creare le condizioni di una convivenza pacifica. Ma un modello replicabile ed esportabile, proprio no. A meno di non ragionare come fa l’assessore all’Urbanistica, Vittorio Barberis, ovvero spostando in avanti il traguardo. L’assessore considera la sua «una città della contemporaneità» proprio perché ha l’esperienza e i mezzi per affrontare la sfida multiculturale e quella della transizione ecologica. Sfide che, a suo dire, si possono (e devono) affrontare in abbinata. «Prato è abituata ad accogliere e soprattutto ha nel Dna dei suoi imprenditori i principi dell’economia circolare». Dagli abiti di lana diventati vecchi sapevano tirar fuori le migliori stoffe e da lì è nato il mito degli stracciaroli toscani a cui oggi si può, secondo Barberis, tranquillamente attingere. Per andare dove? In territori inesplorati che parlano di collaborazione tra le due comunità per costruire «una nuova agenda urbana». Pedonalizzare le vie di Chinatown come è stato fatto con successo a Milano, portare i creativi a dialogare con le imprese, coinvolgere la seconda generazione cinese nella trasformazione della città. A Prato in molti danno a Barberis del visionario. Speriamo che sia un complimento.