La Lettura, 10 luglio 2022
I flussi migratori intelligenti
C’è una cifra – la più importante – che può apparire strana, se non viene motivata. Al 1° gennaio 2021 gli stranieri residenti in Italia ammontavano a 5.171.870, pari all’8,7 per cento della popolazione italiana. Trattasi di cifra, ecco la stranezza, che da diversi anni ormai staziona attorno al livello dei 5 milioni. Perché, se il bilancio tra gli stranieri che entrano in Italia e quelli che dall’Italia si trasferiscono in altri Paesi o tornano nei propri continua a essere fortemente positivo? Perché – ecco la risposta – l’Italia concede annualmente più di 100 mila cittadinanze italiane a cittadini stranieri residenti: negli ultimi tre anni ne ha concesse 371 mila, a una media annua di 124 mila cittadinanze italiane. Ovviamente, se 371 mila stranieri residenti in Italia sono passati a tutti gli effetti tra i cittadini italiani ciò sta a significare che gli stranieri residenti hanno subito negli ultimi tre anni una riduzione di quella stessa entità.
Più in generale: sono un paio di milioni le cittadinanze italiane concesse a stranieri residenti, sono dunque un paio di milioni gli stranieri residenti che non sono più tali, sono cittadini italiani. Ed è questa la ragione per la quale gli stranieri residenti non aumentano nella misura in cui, a osservare il movimento migratorio, ci aspetteremmo che aumentassero. Perché una parte di loro tutti gli anni passa tra i cittadini italiani. Dal punto di vista del numero degli abitanti, tuttavia, per l’Italia non cambia una virgola, solo la composizione: diminuiscono gli stranieri residenti e nella stessa esatta misura aumentano i cittadini italiani. Se verrà votata la legge sullo ius scholae questo passaggio da stranieri residenti a cittadini italiani si intensificherà nelle età più giovanili – giacché un ciclo di studi di 5 anni svolto in Italia comporterà la possibilità di avere la cittadinanza italiana.
Ciò detto, non che quasi 5,2 milioni di stranieri residenti rappresentino propriamente delle quisquilie. Ma per come sono distribuiti, e vorremmo dire soprattutto per come sono distribuiti sul territorio nazionale, quell’ammontare sembra suggerirci che nel panorama mondiale sia addirittura identificabile una sorta di «modello Italia», a proposito della capacità di far posto (chiamiamola genericamente così, perché dentro possiamo metterci di tutto: l’accoglienza, l’integrazione, il lavoro, le unioni miste matrimoniali di fatto e i bambini che ne derivano) a quanti arrivano da altri Paesi e regioni del mondo. Non essendo così abituati a marcare l’attualità con tanto di «modelli Italia», si deve intanto sottolineare che il modello, del quale vedremo subito le caratteristiche, non corrisponde a chissà quale azzeccata programmazione dei flussi migratori in entrata nel nostro Paese; e che, se c’è un tratto di esso che possiamo premettere agli altri, anzi, è la sua sostanziale spontaneità: il fatto, cioè, che l’immigrazione sembra assestarsi per proprio conto attorno a configurazioni geografico-territoriali che sono forse le migliori possibili. Ma non c’è, in questo, niente di arcano, di tanto misterioso, perché ciò succede esattamente per il buon motivo che l’Italia è quella che è: un grande Paese manifatturiero; e però invecchiato e che continua a invecchiare.
Ma vediamo meglio. Intanto doverosamente sottolineando la prima grande caratteristica dell’immigrazione in Italia, ovvero la sua direzione marcatissima verso le regioni del Centro-Nord e quella, speculare, invece assai debole verso le regioni del Mezzogiorno. Il solco che ne deriva è profondo. Solo 830 mila sono gli stranieri residenti nel Mezzogiorno, contro i quasi 4,4 milioni che risiedono nel Centro-Nord. Nel Mezzogiorno rappresentano poco più del 4 per cento della popolazione di quell’area geografica, nel Centro-Nord poco più dell’11 per cento, quasi tre volte tanto. Cosa più o meno nota che si traduce nel fatto che mentre nel Mezzogiorno è straniero residente un abitante su 24, nel Centro-Nord è straniero residente un abitante su 9.
Ma è proprio questa differenza che sta segnando le sorti demografiche del Mezzogiorno. Perché mentre appariva tutto sommato secondaria quando nel Mezzogiorno la natalità era ben più alta che nel Centro e nel Nord, oggi che nella natalità si assiste a un livellamento in basso tra tutte le macroregioni, ecco che il forte saldo positivo del movimento migratorio rappresenta un bell’aiuto al Centro-Nord, e invece un aiuto modesto e peraltro in via di esaurimento al Mezzogiorno.
Su questa così marcata differenza si è in effetti concentrata in buona parte l’analisi dei flussi migratori in Italia. Lasciando un poco in ombra la loro caratteristica più significativa. Caratteristica che consiste in quella sorta di ubiquità in base alla quale i flussi migratori in entrata nel nostro Paese non si addensano, accumulandosi anno dopo anno fino a vette complicate da gestire, nelle metropoli, nelle città più grandi, nei capoluoghi di provincia, e insomma in quello ch’è il cuore pulsante del Paese, lasciando briciole a tutto il resto del territorio: piccoli e meno piccoli comuni, cittadine di provincia.
L’immigrazione in Italia si diffonde e disperde, si spalma sul territorio. Certo, la dimensione demografica dei comuni funziona pur sempre da attrattore, perché normalmente più una città è grande più presenta opportunità di lavoro e di inserimento socio-economico – opportunità che invece precipitano nelle piccole dimensioni dei centri abitati. Ma nient’affatto nella misura che ci aspetteremmo. E si guardi con tutta l’attenzione possibile a queste tre percentuali. Prima percentuale: nelle 23 città italiane più grandi, quelle con più di 150 mila abitanti, ci sono 12,6 stranieri residenti ogni 100 abitanti. Seconda percentuale: nei 107 capoluoghi di provincia gli stranieri residenti sono 11,6 ogni 100 abitanti. Terza percentuale: in tutti gli altri comuni italiani che non superano i 150 mila abitanti e non sono capoluoghi di provincia gli stranieri residenti sono 7,5 ogni 100 abitanti.
Le due considerazioni che si evidenziano pressoché da sole sono dunque:
a) tra le più grandi città italiane e l’insieme dei comuni capoluoghi di provincia, tra i quali molti non raggiungono i 50 mila abitanti, la differenza tra le percentuali di stranieri residenti è minima (12,6% contro 11,6%; appena un punto percentuale di differenza);
b) anche nel complesso dei circa 7.800 comuni italiani che non sono grandi città e neppure capoluoghi di provincia si registra una percentuale di stranieri residenti tutt’altro che marginale e di poco inferiore alla percentuale nazionale di stranieri residenti (7,5% contro 8,7%: non certamente un baratro).
Insomma: non è individuabile una vera e forte concentrazione degli stranieri residenti attorno ad alcuni poli a scapito di tutti gli altri luoghi e comuni italiani. Certo, se scendiamo a livello della singola città e/o provincia le differenze si ampliano, e non potrebbe essere diversamente. Se si confrontano, tra i capoluoghi di provincia, la città con la più alta percentuale di stranieri residenti, Prato, e quella con la percentuale più bassa, Carbonia, la sproporzione è abissale: 25,3% contro 1,8%. Ma non sono i divari estremi, è la normalità a fare testo. Perché la normalità degli stranieri residenti in Italia è quella, invidiabile in quanto capace di evitare gli effetti banlieue che tanto preoccupano autorità e istituzioni, di spalmarsi sul territorio nazionale piuttosto che accumularsi in poche aree di maggiore attrattività.
Prendiamo le regioni. A livello regionale l’Emilia-Romagna con il 12,7% di stranieri residenti è la prima, guida la graduatoria – ma già si vede come la differenza rispetto all’8,7% nazionale tutto sia meno che eclatante. Ed ecco infatti venire subito dietro, ad appena un soffio, la Lombardia (11,9%), e poi ancora altre quattro regioni con più del 10% (a decrescere: Toscana, Lazio, Umbria e Veneto) e altre quattro ancora con più del 9,5 per cento di stranieri (sempre a decrescere: Liguria, Trentino-Alto Adige, Piemonte e Friuli-Venezia Giulia). Dieci regioni, la metà delle regioni italiane, comprese in un intervallo strettissimo. Più marcate le differenze tra le città capoluogo, ma sempre secondo una graduatoria senza sbalzi clamorosi: dopo la punta eccezionale di oltre il 25% di stranieri residenti a Prato, la vera e sola Chinatown italiana, troviamo Milano al 20,1% e dopo Milano un’altra ventina di capoluoghi, tutti del Centro-Nord, con percentuali di stranieri tra il 15 e il 20 per cento e un’altra quarantina, tra cui Roma con solo il 12,9%, tra il 10 e il 15 per cento. Tra le province i distacchi sono ancora più lievi e meglio graduati: ben 37 province, tutte del Centro-Nord, hanno proporzioni di stranieri che variano tra il 10% di Fermo e il 15,1% di Milano – a non considerare la punta estrema di Prato, col 22,3%. C’è una sola provincia del Mezzogiorno che supera la media nazionale dell’8,7%, quella di Ragusa (9,4%), e anche questa sola eccezione dà l’idea di quanto netta sia la frattura tra le due Italie al riguardo.
I dati non sono disputabili. Sui fattori che predispongono l’Italia a una così marcata diffusione territoriale del fenomeno migratorio, capace se non di evitare del tutto (non si danno miracoli in questo campo), certo di smorzarne gli aspetti più problematici e negativi, già abbiamo alluso ai due fondamentali. L’economia italiana, fondata com’è sulla manifattura, i distretti industriali, le fabbriche piccole e medie, le aziende artigiane, è decisamente funzionale, com’è del tutto intuitivo capire, alla redistribuzione degli immigrati su tutte le aree caratterizzate da questa economia. C’è poi l’alta proporzione di anziani nella popolazione, e più particolarmente ancora quella degli ultraottantenni soli. Sono 4,5 milioni gli ultraottantenni, di questi ben 3,2 milioni sono vedovi, dei quali una metà soli. Cifre importanti che individuano, a maggior ragione nella penuria di figli delle famiglie italiane, un bisogno di assistenza che non ha fatto che crescere negli ultimi trent’anni e che continuerà a farlo. Del resto, è questo stesso bisogno ad avere stimolato una forte migrazione verso i nostri lidi particolarmente di donne dell’Europa dell’Est e non solo.
Ora, questi fattori che predispongono maggiormente alla attrazione e diffusione degli stranieri contraddistinguono molto di più la realtà socio-economico-culturale del Centro-Nord di quella del Mezzogiorno. Cosicché, anche se gli sbarchi sono giocoforza al Sud, dal Sud gli immigrati che arrivano dalle coste africane più che fermarsi qui finiscono per puntare anch’essi in direzione nord. Non certo casualmente, del resto, nel 2020, ultimo anno per il quale si dispone di dati, gli stranieri residenti sono aumentati di 158 mila nel Centro Nord e diminuiti di 24 mila nel Mezzogiorno.