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 2022  luglio 10 Domenica calendario

Venezia, 90 stroncature da Leoni

Una storia lunga novant’anni, ricostruita in un volume che il presidente della Biennale Roberto Cicutto e il direttore della Mostra Alberto Barbera definiscono «atto d’amore», «tentativo di riordinare i ricordi», ma anche occasione per «rivedere giudizi affrettati che l’imperativo di recensioni scritte di botto avevano consegnato a una valutazione approssimativa quando non fuorviante». Della nobile cavalcata che lo storico del cinema italiano Gian Piero Brunetta ha compiuto nelle sconfinate praterie del Festival più antico del mondo firmando il volume La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022 (una coedizione La Biennale – Marsilio) fanno parte fermate d’obbligo che compongono una specie di controcanto della manifestazione.
Dalle pagine del libro, sincero, attento, informato, emerge la cronaca seriale delle stroncature celebri, rivolte, in particolare, ai registi italiani, da sempre nel mirino dei nostri critici, magari all’indomani di proiezioni memorabili, segnate da urla, fischi, tifo, litigi in sala. Giornalisti, addetti ai lavori, spettatori appassionati di cinema hanno spesso lasciato la laguna con l’impressione ancora viva di quelle pubbliche crocifissioni. Ricordi indelebili, dal passato più lontano alle edizioni più recenti, legati a opere di autori, più o meno celebrati, in ogni caso mai risparmiati. Brunetta riporta la definizione che Gadda diede del rito – «La porca rogna italiana del denigramento di noi stessi» – e aggiunge: «È quel modo tutto italiano di volersi far del male, di preferire la denigrazione a tutte le forme possibili di killeraggio e cannibalismo critico piuttosto che essere costretti a riconoscere i merito di qualcuno, proprio perché lo si sente troppo familiare o se ne è gelosi e non lo si vuole celebrare in alcun modo in vita».
In testa all’elenco delle vittime sacrificali c’è Federico Fellini, con La strada del 1954, fortemente osteggiato dalla critica di sinistra. Sull’Unità, il critico Ugo Casiraghi scrisse: «Dopo La strada Fellini deve assolutamente cambiare strada», mentre Guido Aristarco gli fece eco dichiarando «Fellini appare un regista anacronistico, irretito com’è in problemi di dimensioni umane largamente superate». L’anno dopo l’opera vince l’Oscar come miglior film straniero, le stroncature, talvolta, funzionano come portafortuna. Nel ’48 La terra trema di Luchino Visconti fu premiato e lodatissimo da Gian Luigi Rondi, ma anche stavolta, per motivi ideologici, non mancano le osservazioni riduttive del quotidiano cattolico Il popolo, mentre sul Corriere della Sera Arturo Lanocita distrugge il film «per il messaggio di rivolta che trasmette e per il rancore che contiene… Anche se fosse un capolavoro non si potrebbe dimenticare che il film è una predicazione di odio e di vendetta». La proiezione veneziana, come racconta Georges Sadoul nelle Lettres françaises, si trasforma in una messa in scena di lotta di classe dove fischi e applausi polemici riflettono la frattura sociale: «I signori in smoking bianco, le signore coperte di gioielli e di ricami, che costituiscono il pubblico del Festival, sono l’emanazione diretta di quella società feudale e finanziaria contro cui insorge il film di Visconti».
Anche Roberto Rossellini, rievoca Brunetta, «non godrà mai a Venezia di un consenso pieno, per le sue opere a cavallo degli Anni 50, così desiderose di rifondare un nuovo umanesimo e di esplorare nuove strade». Secondo il critico della Stampa Mario Gromo i due episodi che compongono il film L’amore sono «fin troppo indipendenti e piuttosto abborracciati. Questo nostro regista d’ingegno, la cui fama è trasvolata per ogni Paese, sembra sempre più affidarsi alla sua sensibilità del momento o tutt’al più dell’ora».
Le forche caudine delle anteprime al Lido conservano, dai tempi del neo-realismo, tutto il loro fulgore. Gli autori italiani delle generazioni successive vivono trattamenti inclementi di cui ancora conservano ricordi brucianti. Nell’88, a proposito di Appuntamento a Liverpool di Marco Tullio Giordana, Alberto Crespi racconta: «Il film più controverso della Mostra è italiano. O piace o lo si odia a morte a giudicare dalle violente reazioni del pubblico. In questo caso è giusto schierarsi e noi ci schieriamo: il film ci è piaciuto e Isabella Ferrari è bravissima. Una scoperta». Nel 2001 il film di Giuseppe Piccioni Luce dei miei occhi vince due Coppi Volpi per le interpretazioni dei protagonisti, Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli, grazie al giurato Nanni Moretti, ma le critiche non sono entusiaste (sul Manifesto Roberto Silvestri usa toni risentiti «Luce dei miei occhi prende l’infelicità media del vivere comune e ce la sbatte in faccia per 114 minuti») e il Leone d’oro va all’indiano Monsoon Wedding, regia di Mira Nair. Tre anni dopo, nel 2004, Ovunque sei, regia di Michele Placido, è accolto, come riporta Crespi sull’Unità, da «un maremoto di fischi che ha rischiato di provocare ai palazzi veneziani più danni del moto ondoso». La reazione è talmente sopra le righe che Roberto D’Agostini su Repubblica sente il bisogno di spezzare una lancia in favore dell’opera: «I maltrattamenti sguaiati subiti dalla platea del festival veneziano indurrebbero a difendere il film senza riserve dalla maleducazione del pubblico e di una critica che si sarebbero trovati a loro agio tra i giochi gladiatori. Ma non si può accogliere il film senza riserve».
Stresso genere di trattamento tocca ai Giorni dell’abbandono di Roberto Faenza tratto dal romanzo di Elena Ferrante, l’autore reagisce definendo i critici «cecchini anti-italiani» e dichiarando di essere «diventato lui stesso una moglie disperata». Negli anni, il gioco, naturalmente, continua, con numerosi altri titoli, in nome di quella magnifica passione per il grande schermo che, oggi più che mai, rende la Mostra appuntamento imperdibile. Anche per arrabbiarsi, per discutere, per sfidarsi a suon di fischi.