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 2022  luglio 10 Domenica calendario

Viaggio nei luoghi stregati della letteratura

Quando mi hanno parlato delle cave di alabastro di Busca, che non ho mai visto, sono andata a cercare le immagini su Google. Sono meravigliose, e potrebbero essere un’ambientazione perfetta per una storia fantastica. Le storie che esplorano il punto di incontro fra realtà e possibilità hanno bisogno di un’ambientazione consona su cui poggiare. E a cui, magari, cambiare nome.
Del resto, abbiamo sempre immaginato mondi da quando abbiamo cominciato a narrare, si tratti di Atlantide o della Vigata inesistente di Andrea Camilleri, dalla Yoknapatawpha sacra a William Faulkner a quella Holt dove Kent Haruf ha ambientato tutti i suoi romanzi, e via fino a Macondo, a Mompracem e alle isole misteriose di Alcina, di Lost e di Squid Game.
Partiamo da qui, mi sono detta. Dai luoghi che non esistono raccontati in un meraviglioso luogo che esiste. E partiamo da una casa. La casa infestata, o incantata, è uno dei grandi archetipi della narrativa dell’orrore: sinistra come il Bramford di Rosemary’s Baby di Ira Levin o dall’aspetto innocuo come in Questo giorno che incombe di Antonella Lattanzi. O dichiaratamente brutta anche se normalissima a un primo sguardo. Così Shirley Jackson descrive la sua Hill House nell’incipit (che finirà per coincidere con l’explicit): «Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola».
Gli esempi sono innumerevoli, evidentemente. Dall’Overlook di Shining di Stephen King allo splendido e fin qui non tradotto The House Next Door di Anne Rivers Siddons passando per la sciagurata casa Usher di Poe o dalla dimora di Bly dove Henry James ambientò Il giro di vite. Però, ho pensato di accostare a Hill House un’altra famosa proprietà, che d’abitudine non viene associata all’incanto. È Manderley, l’amatissima Manderley di Daphne du Maurier in Rebecca, la prima moglie.
«Questa notte ho sognato di tornare a Manderley». Un inizio meraviglioso: a Stephen King piacque tanto che lo utilizzò in uno dei suoi romanzi più belli, Mucchio d’ossa: «Se esiste nella letteratura inglese un attacco più armonioso e suggestivo, io non l’ho mai letto. Ed è un incipit su cui ho avuto motivo di riflettere a lungo durante l’autunno 1997 e l’inverno 1998».
Rebecca, peraltro, non è quella storia sentimentale di amori e tormenti che si vorrebbe, e non a caso Hitchcock, che stimava Du Maurier al punto di trarre altri due film dalle sue storie (Jamaica Inn e Gli uccelli) ne coglie l’aspetto gotico. Manderley è bellissima, ma è stregata: dal ricordo di Rebecca De Winter e dalla sua custode, la signora Danvers. Ed è una tomba, come appare chiaro dal sogno iniziale: «Una nube, che sino allora non avevo veduto, nascose la luna, e per un istante aleggiò sulla faccia come una mano scura. Con essa l’illusione svanì e le luci alle finestre si spensero. Non vedevo più che un desolato guscio, finalmente senz’anima, non popolato neppure da fantasmi; e nessuna voce del passato vibrava attorno a quelle tristi mura. La casa era una tomba, e i nostri terrori, i nostri dolori erano sepolti sotto a quelle rovine. E mai sarebbe venuta la resurrezione».
L’ultimo luogo incantato, o stregato che dir si voglia, è proprio la Derry di It e di Stephen King, uno dei suoi luoghi piccoli, come Castle Rock, dove sopra la televisione ci sono i quadri con Gesù e il gregge di pecore, e a volte, come in Tommyknocker, Gesù farà l’occhiolino alla padrona di casa e le spiegherà come uccidere il marito. Ci sono molte lattine di birra e fiere di paese e molti fallimenti. C’è povertà. Ci sono le case mobili dove le ragazze che si sono sposate giovanissime perché incinte mangiano scatole intere di cioccolatini e picchiano i figli, come in Le notti di Salem. E silenzio. Nessuno parla a Derry, nessuno vede, anche se ragazzi e bambini scompaiono. La città prospera su quel silenzio e con quel silenzio nutre il male che cresce nel sottosuolo. Non funziona così, sempre? Non si prospera forse grazie al silenzio e all’indifferenza? Salvo poi venir distrutti, in un sol colpo, in quel 1985 che vede esplodere Derry mentre, nel mondo cosiddetto reale, Ronald Reagan iniziava il suo secondo mandato.
Una città sbagliata, dove King ambienterà parecchi romanzi: proprio Mucchio d’ossa, dove la giovane e amatissima moglie di Mike Noonan muore mentre esce da una farmacia, per un ictus (forse), e l’asfalto bollente le segna le guance e il marito dovrà rivederla così all’obitorio, con quei frammenti di Derry sul viso, per l’eternità. E Insomnia, dove la città ha due anime, o due modi di essere vista, e un sacco mortuario nero come fumo la avvolge. Le tante Derry, quella di Dolores Claiborne, che fa quel che deve nel giorno dell’eclissi, de L’acchiappasogni, e de L’uomo in fuga, fino a 22.11.63, dove la prima tappa del viaggio nel passato del protagonista è proprio Derry, la Derry di It, ed è sbagliata come allora e forse ancora di più.
Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa il piede da quelle parti. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti. Derry è indifferente. È indifferente al male che si può vedere e che viene considerato quotidiano. I bulli che incidono con un coltello la pancia di Ben, uno dei perdenti. Che inseguono Beverly. Che terrorizzano la scuola. Quelli che dileggiano una coppia di giovani omosessuali. Ma Derry distoglie sempre lo sguardo. Fino a dare a chi sa guardarla «quella sensazione che Derry fosse fredda, che Derry fosse insensibile, che a Derry non importasse un fico secco se qualcuno di loro avesse a morire e soprattutto non avrebbe minimamente gioito se avessero trionfato su Pennywise il clown. La gente di Derry aveva vissuto da sempre con Pennywise in tutte le sue molteplici manifestazioni… e forse, in qualche modo scervellato, era persino arrivata a comprenderlo. Ad averlo in simpatia, ad aver bisogno di lui. Ad amarlo? Può darsi. Sì, persino quello può darsi».