il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2022
Biografia di Alex Infascelli raccontata da lui stesso
Un po’ Huckleberry Finn, un po’ Holden Caulfield. Qualche sfumatura da Forrest Gump, un’eco da Indiana Jones; il sorriso, l’incoscienza, la polvere, i motori da Easy Rider; la droga e la morte della California di Don Wislow.
Questa è letteratura e cinematografia; quella di Alex Infascelli è vita.
Per l’ufficio dell’anagrafe ha 54 anni, per l’anagrafe personale ne ha festeggiati solo 21 il 27 aprile scorso “perché sono rinato nel 2001, da quando mi sono ripulito da droga e alcol”.
Prima di quel 27 aprile è diventato orfano di padre nel 1977, un padre celebre produttore cinematografico, poi è stato molestato, abbandonato, ha perso ogni riferimento, per due anni è cresciuto con un ragazzo punk nella Roma dei primi ‘80 (“io uscivo di casa biondo platino e con i tacchi”).
Nel 1988 è decollato per Los Angeles e lì per anni ha stretto la mano, ha offerto le braccia, il naso, brandelli di cervello e spicci di pisello a ogni tipo di droga, ogni tipo di esperienza sessuale, umana e artistica; ha rischiato ogni minuto la pelle e senza neanche accorgersene; nello stesso momento ha incrociato e vissuto con l’ultimo degli spacciatori e la prima delle star come Mickey Rourke o i Nirvana (“Mi avevano pure chiesto di diventare il batterista dei Blind Melon e potevo suonare con i Pearl Jam”).
Poi il suo centro di gravità lo ha scovato a Roma. Si è ripulito. Ora uno dei più acclamati registi italiani e la sua storia è diventata un libro, Now here nowhere.
La questione centrale è suo padre.
(Silenzio) È tutto lì; i miei ultimi due lavori, il documentario su Stanley Kubrick e Mi chiamo Francesco Totti, sono storie di padri e figli; in qualche modo dal 2014 ho iniziato un percorso di ricerca di me, di mio padre, di mio nonno…
Un viaggio estremo.
Mio padre è morto in un incidente stradale in Francia; in quell’ultimo periodo andava spessissimo a Los Angeles perché era socio di Allen Klein, avvocato e manager dei Rolling Stones, l’uomo che ha portato i Beatles a sciogliersi; papà era molto legato a Sharon Tate e soggiornava al Beverly Hills Hotel: ho ritrovato la corrispondenza tra i miei genitori proprio con la carta intestata dello stesso hotel.
E lei giovanissimo atterra proprio a Los Angeles.
In qualche modo vado lì a cercare fortuna attraverso la musica, ma nel luogo prediletto dei cinematografari, quindi resto nel contesto familiare.
Per ritrovare la sua storia.
(Sospira) È così e non ci avevo pensato; (pausa) in realtà sono andato a scovare la mia preistoria, anzi la preistoria di noi, della mia famiglia.
Prima del libro a quanti ha svelato la sua vita?
Non a molti, temevo l’effetto “Manuel Fantoni” (il mitomane di Verdone in “Borotalco”); e poi da un lato sono spudorato, dall’altro molto riservato; in sostanza quasi nessuno conosceva totalmente la mia storia, magari qualche episodio spot, magari perché mi agganciavo a qualcosa che succedeva nella realtà, oppure perché sentivo qualcuno trattare un argomento che conosco bene.
L’effetto suscitato?
Ogni volta un’esplosione, ma talmente forte da portarmi a smettere: certe esperienze non si possono condividere senza contestualizzarle, sennò uno rischia di passare da folle; quando mi sono tacitato ho pure pensato: magari un giorno ne nasce qualcosa.
Romanzo di formazione.
Ma non è la storia di un ragazzo italiano che va negli States a cercare fortuna, a sognare una scopata con una star o di finire a pranzo con Orson Welles; sono andato lì per trovare me stesso, sono atterrato in California per sopravvivere; (sorride) in qualche modo, come i cantanti rock nei concerti, mi sono buttato di spalle e lasciato cullare dalle braccia del pubblico.
Altrimenti…
Non avevo gli strumenti per razionalizzare, ridurre o relativizzare la morte di papà, le molestie sessuali e il resto. Avevo bisogno di galleggiare avanti e indietro nel tempo e l’unico posto adatto, oltre alla ricerca di mio padre, era proprio la Los Angeles degli anni 80.
Com’era?
Mistica, esoterica, tropicale, libera, rischiosa, folle, aperta, spregiudicata.
Ogni sua esperienza sembra un set hollywoodiano.
(Ride) Sì, e passo da Voltaire a Forrest Gump; (pausa) mi ha salvato il candore e l’incoscienza di colui che passa in mezzo alle pallottole senza accorgersene; anche Indiana Jones la sfangava sempre perché non prendeva mai seriamente il luogo e le circostanze in cui si trovava.
Le è andata bene.
Non avevo nulla da perdere, perché avevo perso già tutto. Ero già morto. Il mio è un viaggio da defunto per tornare in vita e la mia nascita è il 27 aprile del 2001: primo giorno di totale sobrietà.
Niente droghe né alcol.
Nulla.
Quanto ci pensa?
Zero, più o meno come a Big Jim, il mio giocattolo da bambino; (cambia tono) da 21 anni vivo in una gratitudine costante e per questo posso risultare pure un po’ cojone.
Ha paura che le sue due figlie possano seguire, in parte, il suo percorso?
Ognuno ha il suo; con loro ho stipulato un patto: io imparo il ruolo di genitore come voi quello di figlie, quindi siamo soci; e ho aggiunto: in più ho un vissuto, e vi posso mostrare cosa mi è successo, ma non è detto che a voi capiti lo stesso.
Per cui…
Alla grande non ho mai raccontato nulla fino al 2017, fino alla notte precedente il suo primo giorno di liceo: quella sera siamo andati al ristorante e ho esordito con una premessa: “Da domani entrerai in un altro tipo di mondo, nella terra di mezzo tra un passato protetto e la vita adulta; quindi avrai accesso a qualunque aspetto, come sesso, droga violenza, soprusi, ingiustizie. Vedrai cose che non ti piaceranno o ti piaceranno troppo. Ora ti posso rivelare cosa mi è accaduto”.
E lei?
Sconvolta e felicissima; alla fine ho concluso: “Attenzione, esiste un’ereditarietà rispetto alle dipendenze: prova quello che vuoi, ma sappilo”.
Passati cinque anni?
È praticamente astemia; buttandola nella mischia l’ho vaccinata.
Prima di parlarle aveva paura?
Non ho più paura.
Nel libro definisce la California di quegli anni come bipolare.
Perché era allo stesso tempo libera e coercitiva; (pausa) potevi trovare qualunque tipo di droga e sempre; non c’era limite al sesso e al desiderio di sperimentare. Poi, magari, finivi in cella per una multa non pagata e dovevi trovare i soldi per una cauzione da 400 dollari.
È accaduto a lei.
(Ride) Per recuperare quei 400 sono stato costretto a chiamare il padre della mia ex.
Nel libro compaiono nomi celebri come Mickey Rourke, Milena Canonero, Kurt Cobain, ma li derubrica a comparse.
Perché in questa storia sono come le special guest delle sit-coms: attori molto più famosi del protagonista stesso, che bussano alla porta, entrano in scena e strappano l’applauso del pubblico; in fondo il mio racconto è figlio della tv anni 80; (sorride) non sono il centro della storia e allora li ho vissuti così.
Kurk Cobain e la moglie Courtney Love sono meno comprimari: lui, con i Nirvana, è la storia musicale degli anni ‘90.
Hanno interagito con me in maniera più umana; con Courtney, soprattutto, ho costruito un rapporto profondo, divertente, di scambio. Ci stavamo molto simpatici.
Interagito con la droga.
(Cambia tono) La droga era sempre centrale.
Anni fa, in un articolo, Giordano Bruno Guerri ha spiegato che per sconfiggere la droga è necessario partire da una consapevolezza: che all’inizio è divertente.
È così. Per questo l’approccio puritano e moralista di una serie tv come SanPa lo considero l’ennesima occasione mancata per raccontare l’eroina e il recupero; prima di attaccare uno deve spiegare perché una e più generazioni di stronzi si sono avvicinati agli stupefacenti; (pausa) quella serie l’avevano proposta a me, poi non abbiamo trovato la quadra.
Quindi?
All’inizio avrei spiegato come avviene l’innamoramento, l’abbaglio iniziale, quella luce meravigliosa; poi avrei fatto precipitare tutto; (pausa) è quello che avviene nel libro.
Tra i vari personaggi lei ha incrociato i Simpson, agli albori.
(Ancora ci ripensa, ancora si stupisce e quasi sognante gli esce un…) è assurdo.
Cosa?
Durante il lockdown, con le mie figlie, abbiano iniziato a vedere i Simpson: nei primi episodi, forse, qualcuno di quei tratti sono stati realizzati da me, quando in una delle mie fasi ho collaborato ai bozzetti; a quel tempo erano veramente di nicchia. Ed è come essere entrati nella saletta d’incisione dei Beatles quando ancora non erano i Beatles.
Ed è l’effetto “Forrest Gump”.
(Sorride) E allora ho un altro esempio: da bambino spesso restavo davanti al televisore, ipnotizzato per ore, mi incantavo pure davanti alle prove tecniche di trasmissione, ma soprattutto amavo dei cartoni animati realizzati da tal Gábor Csupó.
Perché lei da bambino aspettava i titoli di coda…
Sì, da figlio di produttore; insomma, proprio fuori dagli studi dei Simpson vedo un edificio con la scritta Klasky Csupó. Mi fermo. E penso: “Mi ricorda qualcosa”. E allora mi rivolgo al tizio che era con me: “Gábor Csupó lo conosci?”. E lui: “È il mio capo”. Da qualche anno si era trasferito negli Stati Uniti ed era diventato un grandissimo producer; (pausa) un’altra chiusura del cerchio.
Qual è il film di suo padre a cui è più legato?
(Resta in silenzio, a lungo) Febbre da cavallo e per un motivo: l’ho vissuto in prima persona; ho delle foto di set accanto a Enrico Montesano nelle vesti del Pomata, con tanto di stuzzicadenti in bocca; in quel periodo i miei si stavano lasciando quindi mamma mi portava lì per lasciarmi a papà.
Le piaceva il set?
Spesso mi davano dei compiti, ero parte di quella famiglia. E nonostante il dramma tra i miei, quelle giornate di riprese erano gioiose, cameratesche, perlate di goliardia tra Steno, i suoi figli, Montesano, Proietti, la produzione; finite le riprese nascevano delle serate uniche. Una roba pazzesca. Dove non c’era discontinuità tra vita e set.
Quel film è un cult.
Poche settimane dopo l’uscita la distribuzione fallì e la pellicola venne tolta dalle sale; un colpo durissimo per mio padre, uomo precisissimo, attento e soprattutto convinto della bontà di Febbre da cavallo; (ci pensa) paradosso vuole che l’unico fallimento della sua carriera, anni dopo, si è rivelato una pepita. Ma era già morto.
Bella fregatura.
Ho due mantra nella vita; il primo me lo ha regalato Ermanno Olmi: “Ogni impedimento è giovamento”; l’altro è di mia madre: “Da li guasti vengono gli aggiusti”; questa è la mia filosofia e Febbre da cavallo ne è la prova.
Il suo libro-bio è talmente spudorato da non sembrare “italiano”.
Questo commento mi è sempre stato rivolto dopo ogni lavoro e ancora non ho capito se è un complimento o no.
Cosa ha significato per lei la morte per overdose di Kurk Cobain nel 1994?
È l’anno zero; (silenzio) dopo una notte di tregenda e di fattanza, vengo svegliato dalla mia fidanzata dell’epoca ed ero convinto fossimo stati invasi dagli alieni o che i Ris stessero bussando alla porta. Invece lei mi guarda e sento le sue parole al rallentatore: “È morto Cobain”; lì ho avvertito uno choc fisico simile a quello provato per mio padre. Eppure non lo consideravo un amico, ma rappresentava qualcosa; (pausa) era solo il 1994, per arrivare a salvarmi dovevano ancora passare sette anni.
Lei chi è?
Io sono tanti.
(Ps. in una libreria a Roma. Cerco “Now here now here” di Alex Infascelli. La libraia si affida al computer. Il libro c’è. E parte una ricerca lunga, estenuante, a tratti imbarazzata, condivisa con altri commessi. Non è nelle novità. Non è a scaffale. Non è in ordine alfabetico. Eureka: è nella musica. Alex Infascelli ride: “Davvero è andata così? Non mi stupisco. È un libro difficile da inquadrare”).