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 2022  luglio 10 Domenica calendario

La società delle macchine prevista da Vonnegut

La Russia e la Turchia vogliono ricreare i rispettivi imperi, Trump aveva vinto le elezioni promettendo di rendere di nuovo grande l’America, Johnson mima Churchill, e non c’è paese europeo che non abbia uno o più partiti populisti (con la parziale eccezione di Malta, dove i populisti hanno solo lo 0,5 per cento dei voti). Di solito si spiega tutto questo come una reazione difensiva alla globalizzazione, che è una tesi che non spiega niente, visto che la globalizzazione continua imperterrita e nessuno stato potrebbe ridursi all’autosufficienza. Tanto è vero che è bastata la guerra in Ucraina, con il suo correlato di embarghi e sanzioni, per scatenare l’inflazione nei paesi ricchi e minacciare la carestia in quelli poveri.Una spiegazione più convincente può venire da un libro del 1952 di Kurt Vonnegut, Piano Meccanico. La storia è nota. In un futuro che, nella proiezione del romanzo, coincide pressappoco con il nostro presente, l’automazione, legata allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ha reso inutili gran parte dei lavori, e polarizzato la società. Da una parte, una élite di tecnici selezionati in base al QI, che progettano e governano, dall’altra le masse, che però, visto che si tratta di una società ipermeritocratica, sono anche gli stupidi, quelli che hanno un QI basso, hanno l’alternativa tra l’arruolarsi nell’esercito e l’impegnarsi in lavori socialmente utili (riparazioni stradali e simili), pagati con i proventi della tassazione dei redditi industriali prodotti dall’automazione.Ovviamente, nessuna utopia o distopia riesce davvero a prevedere tutto. Jules Verne non ha predetto i computer, e Vonnegut, all’epoca in cui l’intelligenza artificiale era appena nata, ne profetizzava visionariamente l’impatto sul lavoro, ma non prevedeva l’emancipazione femminile. In Piano meccanico soltanto gli uomini lavorano, e le donne stanno a casa, a guardare la televisione se sono povere (le faccende domestiche sono sbrigate dalle macchine), a favorire con cene, eventi sociali, crocchi di mogli al club, l’ascesa professionale dei mariti. Il che, se vogliamo, genera una distopia nella distopia, o più esattamente una distorsione temporale, con pezzi di arcaico inseriti in un futuro che assomiglia moltissimo al nostro presente.Si dirà che Vonnegut non prevede nemmeno il populismo, ma non è così. Lo prevede eccome, e ci permette di collocarlo nella giusta prospettiva. Costruito intorno alla presa di coscienza di Paul Proteus, brillante esponente della élite che si sente sempre più a disagio nel suo mondo, il racconto ci introduce a un certo punto alla società della camicia stregata (fu anche, insieme a Distruggete le macchine, uno dei titoli con cui Piano Meccanico fu tradotto in italiano), improbabile movimento revivalistico che si riallaccia alle ultime rivolte dei nativi americani, l’epoca della Ghost Dance, movimento messianico e sincretistico di liberazione che prometteva ai suoi adepti la protezione dalle pallottole dell’esercito grazie a delle “ghost shirts” che, come si appurò nel massacro di Wounded Knee (1890), non mantennero la promessa.Nel romanzo, al posto dei nativi americani ci sono i lavoratori assistiti scontenti e al posto degli ideologi della rivolta indiana c’è l’élite dell’élite, tra cui appunto Proteus, incapace di adattarsi a una forma di vita che fa sentire i subordinati dei semplici assistiti, pagati per non far danni, e l’élite una casta meritocratica ma paradossalmente priva di meriti, giacché se uno è intelligente può essere fiero di esserlo e considerarlo un merito, ma se uno è davvero molto intelligente capisce che, a esserlo, non c’è nessun merito, ma un composto di circostanze genetiche e sociali favorevoli di cui è l’immeritevole beneficiario. Il finale, però, è una replica di Wounded Knee: la rivolta si scatena, gli insorti (contravvenendo alle indicazioni degli ideologi) distruggono tutte le macchine che gli vengono a tiro, ma sono sopraffatti e il romanzo si chiude con la resa di Proteus e dei suoi compagni.Pensare che i populisti faranno la stessa fine dei sabotatori è una consolazione men che mediocre; anzi, non è affatto una soddisfazione. Per quanto lo spettacolo di Conte e di Salvini che annaspano di fronte a Draghi possa essere non privo di attrazione estetica, per quanto ridicolo e antistorico possa apparire Putin a cavallo di un orso (così in diffusi e apprezzati calendari russi), per pittoreschi che siano Giorgia Meloni che declama in castigliano o Erdogan che fa stare in piedi Ursula von der Leyen, resta che il consenso che li sostiene manifesta un disagio reale. Resta, soprattutto, che nessuno di noi sarebbe disposto a pensare che per «stare dalla parte giusta della storia» (orrenda espressione venuta di moda proprio in tempi in cui non è affatto chiaro dove sia questa parte giusta) sia necessario creare un direttorio tecnocratico, composto da donne e uomini intelligentissimi ma proprio per questo antipatici ai più e comunque mai abbastanza intelligenti da mettere l’umanità al riparo dagli imprevisti. Ciò non toglie che da un romanzo che ha settant’anni esatti possiamo trarre almeno quattro indicazioni utili per il presente.Primo: cent’anni fa, ai tempi della Rivoluzione d’ottobre e dell’esaltazione del lavoratore in Ernst Jünger, il futuro dell’umanità aveva una direzione chiara: la fine del capitalismo e il trionfo del lavoro. È successo esattamente il contrario. Il lavoro volge al termine e il capitalismo si è rinnovato, manifestando una vitalità e ingegnosità che i suoi critici non immaginavano perché ne avevano una visione ridotta e storicamente circoscritta: grosso modo, il capitale industriale ottocentesco.Secondo, il populismo è la versione aggiornata del luddismo. Se nel luddismo ci si poteva ancora illudere di risolvere il problema del lavoro con la distruzione delle macchine, ora non è più possibile, perché le macchine sono dovunque. Ce la si può prendere con le élite che, apparentemente, traggono maggiore vantaggio dalle macchine, con questo creando delle crisi i cui effetti più pesanti non ricadono sulle élite, ma sugli altri, secondo il meccanismo che già Nietzsche aveva analizzato nel frammento del 1887 sul nichilismo europeo.Terzo, non basta distribuire redditi di cittadinanza per favorire il benessere sociale. È necessario avviare una trasformazione culturale che ci porti fuori dal mito dell’homo faber, che si trasforma nel disvalore e nella umiliazione di chi viene privato del lavoro, e dunque – si conclude inappropriatamente – della dignità umana. Sembra un’impresa enorme, ma è più a portata di mano di quanto non si creda. Nel libro di Vonnegut, che aveva previsto i computer ma non i personal computer, chi stava a casa guardava la televisione, cioè oziava. Adesso invece, per più di sei ore al giorno negli Stati Uniti, sta sul Web e, invece che perdere tempo, produce dati, cioè valore. Passare dall’umano come produttore di beni all’umano come produttore di valori è dunque la condizione imprescindibile per superare lo scontento e il senso di crescente marginalità che, molto più della mancanza di beni materiali, costituirà il grande male sociale delle nazioni avanzate.Quarto. Una riscrittura della regola benedettina ora et labora potrebbe, presto, lasciar da parte il lavoro: copiare codici è una attività automatizzata da secoli, e gli addetti all’agricoltura in Italia – che un secolo fa impegnava metà della popolazione italiana – sono oggi il 2 per cento della nostra forza lavoro. Posto che l’opzione di pregare sarà, presumibilmente, minoritaria, gli sforzi dell’umanità, e delle politiche che si darà, dovranno consistere nel capacitarsi. Propongo questo termine come alternativa a «capacitazione» (traduzione meccanica di capacitation), e con esso indico il grande compito di una umanità progressivamente liberata dal lavoro: capacitarsi nel senso di prendere coscienza, del farsene una ragione; e capacitarsi nel senso di dotarsi di nuove capacità che ci permettano di vivere con maggiore ricchezza spirituale la nuova, e promettente, condizione post-fabbrile. —