Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 10 Domenica calendario

Ferdinando Scianna e l’estate del 1963

Tutto comincia d’estate. Forse perché in quei giorni si osa essere sé stessi. Era il 1963 e Ferdinando Scianna, ventenne di Bagheria, neppure immaginava sarebbe divenuto il primo fotografo italiano della prestigiosa Magnum di Cartier-Bresson. La sua è la storia di una fuga on the road attraverso la Sicilia contadina e povera, bellissima e struggente, sul punto di scomparire. Una fuga dal destino da ingegnere che il padre aveva pensato per lui.Fernando, con quale auto andò in giro in quella estate per i paesi a fotografare le feste religiose e la vita quotidiana?«In famiglia avevamo una Volkswagen e con un mio amico tirammo fuori il sedile posteriore e la trasformammo in una roulotte».Durante quei giri, da Bagheria, arrivaste a Lentini, a Trecastagni, tra Siracusa e Catania. Oltre quattro ore. Cosa vi spinse fino a lì?«Qualcuno mi aveva parlato di questa festa “di ‘nuri”, pellegrini in mutande con sulle spalle ceri giganteschi. Si inerpicavano sull’Etna correndo e gridando “Viva Sant’Alfio!”. Al culmine della cerimonia c’era un mare di gente, e la chiesa piena di uomini che, con la cera che colava sulle spalle nude, bestemmiavano furiosamente».E lei cosa fece?«A un certo punto, salii sul fercolo, dove c’era il prete che tirava su le offerte. Le madri gli davano i vestiti dei bambini malati perché li strofinasse sul quadro dei santi per miracolarli. Vidi una donna che tirava su un bambino magro, malaticcio, e scattai. Ho pensato per la prima volta di aver fatto, forse, una gran foto».Così tanta gente che quasi si perdeva la macchina fotografica.Ma chi gliela aveva regalata?«Proprio mio padre che non voleva facessi il fotografo. Alla fine del liceo, mi diede i soldi, così andai a Milano, poi a Chiasso con un parente. Era una Canon R2000. Nella mia follia l’ho regalata a mio cognato e non so neppure che fine abbia fatto. Mi piacerebbe averla adesso».Sulla strada del ritorno, da quella festa dei ceri, di cosa parlaste?«Io e il mio amico non abbiamo fatto altro che ripetere ciò che avevamo visto, le emozioni provate. Eravamo ragazzi della costa, vivevamo vicino a Palermo, pensavamo fossero selvaggi. Ero completamente travolto, psicologicamente e passionalmente».Dove vi fermavate le notti?«Parcheggiavamo vicino alle fontane ai bordi dei paesi. La mattinauscivamo contendendo l’acqua alle signore che riempivano le loro anfore. Era un mondo in dissoluzione e io, inconsciamente, lo avevo intuito».A Ferragosto poi andò alla festa di San Rocco a Butera. Il suo amico non c’era. Andò con suo nonno falegname. Cosa ricorda?«Durante quella festa c’era Giovanni U’Serperntazzu, un signore che indossava una macchina che simulava un serpente. I bambini gli sventolavano davanti un’anatra, lo stuzzicavano. Poi, sulla strada di ritorno, volli a andare a cercare Leonardo Sciascia».Qualche mese prima, Sciascia era venuto a Bagheria. Vide la sua prima piccola mostra. Lei non c’era. Sciascia fu impressionato e le lasciò un bigliettino. Certo, se io avessi ricevuto un biglietto da Sciascia...«Non lo avrebbe perso come ho fatto io!»Ma perché ha aspettato tanto per andarlo a trovare?«Non è che allora fosse come adesso, non era facile, cercavo l’occasione, e poi, non avevo ancora vent’anni, c’era la timidezza».Poi la mattina del 16 agosto ebbe il coraggio...«C’erano cinquanta gradi. Lo trovai nella contrada di campagna dove lui andava a scrivere in estate. Non fu facile, era fuori dal paese, a cinque chilometri. Arrivai a un orario incivile: le 12 e 30. Fuori c’erano la zia e la madre, che infornavano il pane davanti a casa».Come era quel posto?«Miimpressionò, io venivo da un mondocontadino piccolo – borghese, miopadre aveva un pezzo di limoneto, noneravamo poveri. Da uno scrittore mi aspettavo un’altra cosa. Lì, non c’era né la luce né l’acqua. Non c’erano neanche alberi da ombra».Sciascia cosa le disse?«"Ah ecco il fotografo di Bagheria, venite qui. Avete fame? Avete sete?” Ci invitò a restare e mangiare. C’è un galletto, disse, basta per tutti».Ha le foto di quel giorno ?«Macché. Io che fotografavo ogni cosa, quel giorno non ne ha fatto neppure una. Ero totalmente sotto la fascinazione dell’uomo e del luogo».Cosa vi diceste?«Che avevo rimorsi nei confronti di mio padre e mi ero iscritto a Lettere, avrei fatto una tesi in antropologia.Volevo utilizzare le foto sulle feste.Lui mi disse che le mie foto non erano da antropologo. A te, mi disse, piace raccontare il mondo, la vita.Questa fu la rivelazione che mi salvò la vita».Cosa accadde poi?«Sciascia mi portò a Bari da Laterza, ma quello non ne volle fare nulla. Per fortuna un altro editore pensò a un libro con le mie foto e i testi di Sciascia. Venne pubblicato nel 1965».Tutto cambiò. Milano, l’Europeo, poi Cartier-Bresson, la Magnum.Ora come ricorda quelle estati?«Quel periodo lì, a parte la felicità del corpo, tutto quel mio fare fotografie, lo ricordo proprio come una lunga estate».E la fotografia, cosa è per lei?«È una spiaggia a cui ogni fotografo porta il suo granello di sabbia».