Robinson, 9 luglio 2022
Biografia di Antonella Anedda raccontata da lei stessa
Come per quella adottata dal miglior fabbro (dedica imprescindibile con cui Eliot riconosceva il grande lavoro di Pound), la poesia di Antonella Anedda è cresciuta nell’essenzialità. Niente si incontra di superfluo nei versi diHistoriae e persino nella prosa diGeografie e del recentissimo libro dedicato a Leopardi e Darwin. In ogni prova si avverte la forza della concentrazione e l’idea che scrivere più che un atto interiore sia il frutto di conoscenze e competenze. Antonella si è laureata in storia dell’arte con Augusto Gentili, un iconologo specialista di pittura veneta, per poi passare anni dopo a una rilettura dell’evoluzionismo. Su questo campo largo di saperi si è installata la sua poesia.
Che scelta è stata la storia dell’arte per poi, anni dopo, dedicarsi a Darwin?
«Una scelta obliqua. Non volevo occuparmi frontalmente di letteratura. Feci una tesi su Palma il giovane, a Venezia, era un lavoro di iconologia che studiava anche le committenze, il mondo dei mercanti e come le economie s’intrecciassero alla religione.
Quanto a Darwin, a Oxford ho studiato Erasmus Darwin, il nonno di Charles, fiutando le tracce di Leopardi».
Che cosa l’attrae di Darwin?
«Il suo linguaggio diretto e franco che scaturisce da un’osservazione senza pregiudizi. Lui stesso è stato fatto oggetto di una lettura ideologica quando si è cercato di vedere nell’evoluzionismo la sopraffazione del più debole da parte del più forte. In realtà Darwin mette la solidarietà tra gli strumenti evolutivi. Lo dice molto bene Elisabeth Bishop, una delle mie autricipreferite: Darwin si serve dello stesso stato mentale che permette la poesia. Un altro poeta, Osip Mandel’stam, ammira Darwin per aver sconfitto l’ampollosità dei naturalisti che lo avevano preceduto».
Argomento del suo nuovo libro è la relazione tra Darwin e Leopardi. Su che cosa si fonda?
«Molto in Leopardi lascia presagire Darwin. Il tramite di questo protoevoluzionismo è il nonno di Charles, Erasmus Darwin, di cui mi sono occupata. Medico, anticreazioniosta, poeta, antischiavista ha anticipato moltissime idee del nipote. Il suo libro Gli amori delle piante,uscito nel 1789, è nella biblioteca di casa Leopardi. La sintonia tra le idee di Giacomo e quelle di Erasmus è a volte evidente, altre volte più sottile, ma credo interessante per una storia delle idee. Tra l’altro Erasmus Darwin e Leopardi sono compagni di censura: nel 1837 vengono entrambi messi all’indice».
La poesia che si lascia attrarre dalla scienza è il riconoscimento del ruolo che la realtà deve e può avere. Lei come misura o rapporta il suo sguardo sulla realtà?
«Non lo so, forse lo aggiusto di volta in volta, mi misuro o cerco di farlo con quello che incontro. Non è facile, ma quando si riesce ad accantonare lo spettro di un io immutabile, prestabilito e si accetta che sia mutevole, tutto migliora».
La realtà è frutto di osservazione. È misurabile, classificabile, al tempo stesso inesauribile.
“Geografie” è un libro di luoghi visitati o immaginati.
Ma si può fare a meno della storia?
«A scuola storia e geografia si insegnavano insieme, erano e sono consustanziali. La storia dice: ho visto. E mentre lo dice racconta e testimonia. La geografiadice: vedo in questo luogo, e nel dirlo lascia spazio alla vita. Al cibo, per esempio; alla produzione dei beni. La geografia riguarda fiumi, montagne, mari. L’ho sempre amata per questo. La storia è verticale, austera. La geografia è orizzontale. Il libro Geografie è un omaggio all’osservare. È, senza gerarchia, dedizione alle cose grandi e piccole».
Una parola ricorre spesso nei suoi versi: “acqua”.
Poche parole hanno tante declinazioni come questa.
Oggi viviamo in un pianeta che abbiamo offeso e l’acqua si sta ribellando imponendo la dura condizione della siccità.
«Pensare all’acqua è pensare al futuro. E a proposito di dedizione potrei dire di essere devota dell’acqua. Sia essa dolce o salata. Sia che provenga da fiumi, laghi o mari, ne sono attratta. Chi mi conosce sa che se c’è una pozza d’acqua sufficientemente pulita mi ci butto e mi piace che sia fredda. Giustamente mi prendono in giro, era la cura per i pazzi».
La follia è, a volte, una verità non convenzionale.
Lo è anche la poesia?
«La “verità” è una parola temibile. Certo, esiste una forma di verità della poesia che non ha però nulla a che vedere con qualcosa di morale. Credo sia una verità interna al testo che risponde alle sue forze».
E la lingua? Tutti i suoi poeti preferiti — Mandel’stam, Celan, Zanzotto — si sono posti il problema della lingua, a cominciare dal lavoro di traduzione fino alla riflessione sulla lingua che essi stessi hanno usato. Per lei che posto occupa tutto questo?
«La migliore definizione è di Dante: il linguaggio è “ciò che ditta dentro”. Il linguaggio è pensiero che nel momento in cui si lascia contagiare dalla realtà si compone, scompone, ricompone di nuovo. Non facciamo che tradurre continuamente tutto questo».
Un posto di rilievo, dovuto alle sue origini, occupa la lingua sarda, la “limba-matre”, come dice. Al punto che ha scritto poesie in sardo con accanto la traduzione. Cosa motiva il bisogno di questo doppio registro?
«Esploro le radici selvatiche di quella lingua sintetica e dai suoni aspri».
Dove è nata esattamente?
«Sono nata a Roma da una famiglia sarda da generazioni, in cui spesso ci si sposava tra cugini. La mia nonna paterna aveva una parte corsa. Dunque nessuna presenza continentale, solo isole nelle mie radici».
La sua infanzia fu segnata da una lieve balbuzie. In fondo, anche la poesia può essere ricondotta a una lingua balbuziente.
«Chissà. È un’ipotesi interessante. Forse la balbuzie permette degli “a capo” non canonici, sorprendenti, come fosse un impuntarsi sulle lettere».
Quali libri ha preferito nell’infanzia?
«Due in particolare. Uno si intitolava Miti, saghe e leggende, l’altro raccoglieva fiabe da tutto il mondo. Poi mi sono imbattuta inGuerra e pace, ero troppo piccola per capire tutto. Di quel romanzo ho amato soprattutto gli spazi».
E fuori dai romanzi e dalle fiabe con cosa è cresciuta?
«Quando ero ormai più grande ho letto molto Marx, per amore. Ero innamorata di un ragazzo che veniva da una famiglia d’intellettuali comunisti. Mi sentivo ignorante e studiavo. In casa, come dice Salvatore Satta inIl giorno del giudizio, c’erano soprattutto libri di diritto. Il resto era considerato abbastanza frivolo».
Perché libri di diritto?
«Mio padre era un magistrato che aveva fatto la tesi in medicina legale. A casa, oltre ai testi giuridici, c’eranolibri con foto di cadaveri, assassini, etc. Mio padre è ancora vivo. Con lui ho un bel rapporto soprattutto ora che non è più giudice».
Però nelle sue poesie, penso a “Historie”, c’è soprattutto la presenza di sua madre. Quasi un’elaborazione del lutto, presagito da quei versi di “Boschi, acque”: “Quando mia madre nuotò per l’ultima volta il mare stormiva come un pioppo…”
«Non è facile per me parlarne. Il rapporto con la madre è di possessione ma nel senso meno tragico del termine. Boschi, acque trasmette un senso molto particolare per la solitudine, una vena di sarcasmo accanto a vene aperte di disperazione. In fondo, tutto questo era ed è mia madre».
Come arriva alla poesia? Ha contato suo nonno che scriveva poesie dal fronte?
«Mio nonno in effetti scriveva poesie d’amore spesso in sardo. Io ho scoperto la poesia, ascoltando alla radio alcuni versi di Aleksandr Blok. In quel momento ho intuito che le parole avevano il potere di spalancare uno spazio ulteriore attraverso una combinazione di significati e suoni. Era come trovare appunto la combinazione di una cassaforte».
Significato e suono vanno in qualche modo cuciti assieme. Al gesto umile del cucire lei dà particolare importanza. Perché?
«Perché oltre che umile il cucire è regale ed essenziale. Ma al cucire aggiungerei il verbo tessere che implica un’architettura e una struttura. Implica anche un progetto e non esclude una disubbidienza, come nella tessitura di un tappeto in cui le donne inserivano un filo non previsto. Lavoro tenendo a mente tutto questo».
Lei distingue tra poesia e poetico. Come se il poetico sia una caduta o una degenerazione della parola, una parola che spiega troppo, che instrada, costringe, astrae.
«Poetico è un aggettivo che aggiunge. Quando posso lo evito. La poesia non è “poetica”. Per quanto mi riguarda non ci sono cose poetiche perché non ci sono cose impoetiche. La spazzatura può essere arte. A me ad esempio interessano i fossili, i detriti, le ossa».
Sembra di tornare alle nomenclature scientifiche. È la poesia che non può fare a meno della realtà?
«La poesia è un modo non convenzionale di leggere la realtà. La reinventa rendendo ad essa giustizia. Per me la poesia è anche uno strumento di conoscenza e questo implica un certo scavo della materia fra i detriti, le pietre, le piante, le stelle, l’universo. Senza nessuna opposizione».
Dove ha imparato ad apprendere?
«A parte i nomi che si sono già fatti, da tutti i classicigreci e latini. Sono abbastanza onnivora e credo di imparare da tutto. I miei maestri cambiano, non ho riferimenti fissi tranne forse l’Iliade e laCommedia. Ma amo e leggo testi non direttamente legati alla poesia, per esempio mi è capitato recentemente di leggere un saggio sul merluzzo».
Un posto nella sua mente, o nel suo cuore, è occupato da Amelia Rosselli. Che ricordo ne ha?
«Le volevo bene. Era spesso fragile ma aveva un grande sense of humor, soprattutto verso se stessa. Una spiccata autoironia insomma. Per dirla con Silvia Plath era caustica e lirica. Mi ha insegnato a fare i Chin’g e sapeva ridere dell’ambiente intellettuale romano.
Come mi capitò di scrivere: Amelia è stata il Pontormo della poesia italiana».
Lei è abbastanza estranea a quel mondo di intellettuali e scrittori che si muove come una compagnia di giro. Vive appartata rispetto agli eventi mondani. La modestia è la grandezza del piccolo. Si ritrova in questa sua frase?
«Non sono sicura che vivere appartati abbia a che fare con la modestia o con la grandezza. Nel mio caso credo sia dovuto alla mia sardità. Mi piace la compagnia ma ho bisogno di raccoglimento e solitudine».
Immagino per scrivere e descrivere. C’è differenza?
«La descrizione ci mette di fronte all’infittirsi delle cose e questo può essere doloroso. Scrivere può (forse) agire su questo peso, alleggerirlo».
Lei parla spesso dei suoi libri come forme dicongedo.
«Il congedo ha con sé qualcosa di definitivo. In realtà mi solleverebbe pensare a qualcosa che si interrompe per poter ricominciare».
Che cosa le accade quando smette di scrivere e quando pensa sia giunto il momento di ricominciare?
«Vorrei rispondere che scrivo quando ho qualcosa da dire, ma sospetto sia così per tutti, e che questo qualcosa non sia necessariamente ciò che gli altri vogliono sentire. Cerco di ricominciare solo quando mi sembra che qualcosa prenda forma nel mio cervello».
Come fosse l’inizio di un viaggio.
«Tutto da esplorare».
Ama viaggiare anche lontano. Ma ha paura dell’aereo. Come si combinano le due cose?
«Da qualche anno penso che l’aereo sia un modo per evitare il funerale. Si risparmiano molte seccature. Da quando ho cominciato a vedere le cose da questa prospettiva, salgo e mi addormento».
Come immagina il rapporto con la sua morte?
«Potrei rispondere con Spinoza: “A tutto pensa l’uomo libero / a tranne che alla morte”. Cerco di esercitarmi in questa libertà».