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 2022  luglio 09 Sabato calendario

La fine del processo sul Bataclan

1. Nella sala delle aste giudiziarie l verdetto è annunciato per le 17, ma tutti si aspettano che arriverà dopo, secondo alcuni a tardissima ora. C’è ancora più gente del primo giorno, ancora più gendarmi, ancora più smania. Nessuno vuole allontanarsi, la gente gira in tondo, circolano barrette di cioccolato e voci di corridoio. Come il primo giorno, in aula ogni testata ha diritto a un posto soltanto e stavolta quello riservato all’Obs va a Mathieu Delahousse. Io e Violette Lazard ci sistemiamo nella sala di ritrasmissione delle aste giudiziarie, lei su un angolo di panca, io sul bordo di un gradino in mezzo a duecento giornalisti venuti dal mondo intero e che nella maggior parte dei casi non abbiamo mai visto.
La corte fa il suo ingresso alle 20.30, temevamo peggio. La sentenza completa, annuncia il presidente del tribunale, conta 120 pagine, sarà disponibile la notte, questa sera ne leggerà soltanto un riassunto. «Nessuno avanza obiezioni?» Ride della sua battuta, si sente che è tesissimo, lo sono tutti. Si parte. Salvo per quel che riguarda l’imputato Farid Kharkhach, tutte le richieste della pubblica accusa sono state accolte dal tribunale. Tranne l’imputato Kharkhach, tutti sono riconosciuti colpevoli della totalità dei reati per cui sono processati. Kharkhach è quel personaggio strampalato che ha fabbricato falsi documenti senza sapere, con tutta evidenza, né per chi fossero né a quale scopo servissero, e che quando i suoi bambini vengono a trovarlo in parlatorio gli fa credere che è un secondino. Siamo contenti per Kharkhach, ma se è il solo a cavarsela significa che tutti gli altri sono fregati.
Se ne rendono conto i tre pesci piccoli fra gli imputati, Chouaa, Attou e Oulkadi, che durante tutto il processo hanno assistito alle udienze liberi, seduti sui loro strapuntini davanti alla gabbia degli imputati, e che affondano la testa fra le mani mettendosi a singhiozzare. Tra le gambe hanno delle borse di tela con le loro cose, nell’eventualità che li spediscano dritti in prigione dopo l’udienza, e pare che andrà proprio così, anche senon è ancora sicuro dato che l’ammontare delle pene verrà enunciato solo dopo il verdetto di colpevolezza. Mi ricordo le ultime parole di Chouaa, l’altro ieri: « Ho paura, una grandissima paura che facciate un errore » . Sono le due grandi incertezze del verdetto: la sorte dei pesci piccoli ( usciranno liberi?) e quella del pesce più grosso di tutti, Abdeslam ( si beccherà il famoso, e per molti sconvolgente, ergastolo senza possibilità di remissione della pena che è stato chiesto dalla procura?).
Quando arriva il suo turno, nell’enunciazione delle pene, non è subito così chiaro, perché una volta pronunciata la parola «ergastolo», che non sorprende nessuno, il presidente aggiunge che nessuna delle misure previste dall’articolo 132.23 del codice penale potrà essergli accordata. L’impressione è che non si tratti di una buona notizia per Abdeslam, lui stesso sembra sconcertato, interroga con lo sguardo i suoi avvocati, che stanno sulle spine, ma il presidente del tribunale non ha pronunciato espressamente la formula «senza possibilità di remissione della pena » e il dubbio si diffonde tra le panche: «Che ha detto? Ma che dice, l’articolo 132.23?» I giornalisti venuti dal mondo intero devono spedire, registrare o twittare i loro articoli nel giro di mezz’ora e c’è grande frenesia. Il presidente prosegue la lettura. Quest’uomo abitualmente placido inciampa sulle parole, gli si attorciglia la lingua, i lapsus si susseguono, il più clamoroso è quello di chiamare Mohammed Amri Mohammed Henri, inciampo di non poco conto per un magistrato della sua età, se si pensa che l’assassino di un bambino che Badinter riuscì a strappare alla ghigliottina strappando al contempo pure l’abolizione della pena di morte si chiamava Patrick Henry. Ed è proprio dopo questo Mohammed Henri che l’immagine improvvisamente si blocca sullo schermo. Il presidente resta con la bocca aperta, l’audio cade, la trasmissione si interrompe. Tilt.
2. Il general tartaglia
A due terzi del verdetto, proprio nel momento in cui venivano pronunciate le pene, il più drammatico delprocesso, la trasmissione va in tilt. Non è possibile. Restiamo appesi in attesa che torni l’immagine, ma non torna. Non sappiamo che fare. Qualcuno resta pietrificato, altri escono nell’atrio. Io esco. Ci accalchiamo davanti all’aula. Di entrare ovviamente non se ne parla, è piena come un uovo. Ma, balbettiamo noi, faranno una sospensione, il tempo necessario per ripristinare la ritrasmissione? Niente sospensione, dice Julien Quéré, di cui parlerò fra poco. Si continua. Costernazione generale. Anche mia, fino a che non mi torna in mente questa storia. Nel 1849, all’età di 28 anni, Dostoevskij venne arrestato per aver preso parte a un complotto terroristico e condannato a morte. Fu condotto, insieme agli altri congiurati, sul luogo della sua esecuzione. Furono incappucciati e legati a dei pali mentre i soldati del plotone caricavano i fucili. Un attimo prima che venisse dato l’ordine di sparare, un emissario dello zar arrivò e li informò che era stata concessa loro la grazia. Grazia relativa: Dostoevskij si fece quattro anni di bagno penale in Siberia, da cui tornò Dostoevskij, l’uomo che più tardi avrebbe descritto, nei Demoni, il brulichio di scarafaggi visionari che è una cellula terroristica.
Il dettaglio sublime, quello che i suoi biografi riportano immancabilmente, è che l’emissario incaricato di leggere la lettera di grazia, per casualità o per sadismo, era un generale balbuziente. Immagino cosa sia successo nel minuto successivo all’interruzione della trasmissione nella sala delle aste giudiziarie. Qualcuno ha avvertito il presidente e lui ha dovuto prendere una decisione sul momento: sospendere l’udienza fino a che non veniva risolto il problema tecnico, perché non si poteva far questo ai duecento giornalisti venuti dal mondo intero, oppure, visto che la lettura della sentenza era cominciata, andare fino in fondo perché non si poteva far questo agli imputati. Avevo criticato, la settimana scorsa, il fatto che il presidente, nell’avvisare che la camera di consiglio probabilmente si sarebbe protratta a lungo costringendo ad attendere per ascoltare la sentenza, avesse espresso rammarico per tutti tranne che per loro. Si è brillantemente riscattato. Ha detto: si continua. Si è rifiutato di indossare i panni del general tartaglia.
(Al punto in cui sono: si dice che un’analisi si gioca tutta nella prima seduta, lo stesso vale per la prima udienza di un processo importante. Interrogatorio anagrafico: Abedslam, professione? « Combattente dello Stato islamico». Périès guarda i suoi fogli e dice: «Io vedo scritto: lavoratore interinale » . Questa replica divenuta leggendaria non poteva essere premeditata, gli è venuta così, senza aggiunta di humour e sarcasmo. Ha stabilito la sua autorevolezza per tutto il processo, dalla prima udienza alla centoquarantanovesima: onore a Périès).
3. In cima ai gradini
Siamo in cima ai gradini del palazzo di giustizia e Marie Dosé si sta lamentando. Marie Dosé, insieme a Judith Lévy, è l’avvocata di Ali Oulkadi e tutte e due hanno ragione di essere soddisfatte, perché Oulkadi e gli altri due, alla fine, escono liberi. Ma ci vuole di più per accontentare Marie Dosé, che è un’avvocata appassionata, testarda, brontolona, la adoro. Questo verdetto, dice, è un’assurdità. Un’assurdità dal punto di vista del diritto. Lei e Judith Lévy hanno chiesto l’assoluzione del loro cliente e invece è stato dichiarato colpevole di tutto, associazione a delinquere con finalità terroristiche, favoreggiamento personale a beneficio di individui responsabili di attività terroristiche, cose estremamente gravi per le quali viene condannato a cosa? Ai due anni di prigione senza condizionale che ha già scontato, quelli che si sarebbe beccato per uno scippo in un processo per direttissima. Che significa? Significa che sanno benissimo che non hanno niente di terribile da rimproverargli, ma che invece di assolverlo e di accollargli i suoi due anni per semplice favoreggiamento personale, che sarebbe la pura e semplice verità, vogliono, per fare giurisprudenza, che nulla sfugga alla famosa associazione a delinquere con finalità terroristiche, che era già, rincara la dose Judith Lévy, un reato-cestino, in cui finiva di tutto, ma che si sta trasformando in un reato-discarica.

Tutta la logica del verdetto, mi spiegano ( mi piace che Marie Dosé e Judith Lévy mi spieghino le cose, l’hanno fatto spesso nel corso del processo), è di evitare l’appello. È la preoccupazione principale. Loro due sono orientate a non ricorrere in appello per Oulkadi. È una decisione aberrante, dovrà portarsi dietro per tutta la vita l’etichetta di terrorista appiccicata in fronte, ma esce libero, è questo l’essenziale. Stesso discorso per Chouaa e Attou. In generale, hanno dato a tutti un po’ meno di quello che chiedeva l’accusa ( il sottinteso è: ritenetevi soddisfatti e se ricorrerete in appello state pur certi che vi beccherete di più), per concentrare il tiro sulla testa di Abdeslam, il terrorista assoluto, definitivo e terminale, che rimarrà dietro le sbarre fino a che morte non sopraggiunga, così tutti saranno contenti. Tutti vuol dire l’opinione pubblica, a cui viene propinato il messaggio che in materia di terrorismo siamo e saremo sempre implacabili.
Di sicuro non tutti fra i miei compagni di processo, parti civili comprese, che questa pena inflitta quattro volte in venticinque anni mette a disagio, nella maggior parte dei casi. Per due ragioni, una di buon senso, l’altra di diritto. La ragione di buon senso è che se invece di essere morti i nove assassini del commando fossero nella gabbia degli imputati, avrebbero preso, e meritato, questo ergastolo senza possibilità di remissione della pena. Ma lui? Lui, il comprimario cacasotto, cosa si sarebbe beccato? Non la stessa pena, si può starne certi. Ma visto che non abbiamo sottomano i veri criminali, paga per loro. La ragione di diritto, ora: la pena poggia su un costrutto giuridico contorto. ( Una battuta che girava all’epoca di Mitterrand: il presidente ha due avvocati, Robert Badinter per il diritto e Roland Dumas per il contorto). Legalmente, pure sommando tutti i reati commessi da Abdeslam, non si arriva a questo massimo dei massimi. Da qualunque parte la si prenda, i conti non tornano. Aiuterebbe, per arrivarci, se avesse sparato sui poliziotti del Bataclan, mentre lui non solo non ha sparato su nessuno, ma al Bataclan non c’era neppure. Non importa, dice la pubblica accusa, l’insieme delle scene d’attentato devono essere considerato come una sola scena d’attentato. Non aver sparato in un caffè del 18° arrondissement è la stessa cosa che aver sparato in una sala da concerto dell’ 11°. Si chiama l’ « interscambiabilità » delle scene del delitto, è la trasposizione territoriale dell’adagio «se non sei tu, allora è tuo fratello», che è il perno centrale dell’associazione per delinquere con finalità terroristiche, e, con tutta la stima che nutro per i sostituti procuratori, mi lascia perplesso.
Lascia perplesso me e lascia perplessi molti dei miei compagni, ma non possiamo onestamente dire che questa perplessità ci tormenti. Non lanceremo certo l’hashtag
jesuissalah.
Mezz’ora dopo il verdetto, che si può discutere ma non è scandaloso, siamo passati ad altro. Siamo in cima a questi gradini dove siamo rimasti tante ore a discutere, fumare, piangere durante le pause delle udienze. Ci sono trenta camionette della polizia giù sul viale. Tra qualche ora se ne andranno e si potrà attraversare liberamente l’Île de la Cité, che è rimasta bloccata per quasi un anno. Non so quante volte gli amici mi hanno detto, nel corso di quest’anno: « Certo che rompi proprio i coglioni con questo tuo processo che blocca la circolazione » . Il mio processo, già. Ce ne rendiamo conto questa sera, tutti, anche quelli come me che erano qui solo come osservatori: è stato il nostro processo, ed è finito.
4. Scendiamo i gradini
Scendo i gradini insieme a Aurélie, il cui marito, Matthieu, è stato ucciso al Bataclan. Non ho mai parlato di lei in queste cronache, è la legge delle comunità effimere, ci sono persone con cui stringi amicizia solo alla fine. Mi racconta: il 14 novembre 2015 sua sorella ha spento la televisione e le ha detto: « Adesso non guardi più niente, non ascolti più niente, non ti occupi più di questo, ti concentri sulla tua vita». Il bel libro che ha scritto Aurélie,
Nos 14 novembre
(
I nostri 14 novembre)
parla di Matthieu, dei loro figli, del lutto, dell’intimità della vita,ma non di questo. Rifiuta di lasciarsi invadere da questo. Di andare al processo non se ne parla, di testimoniare ancora meno. L’ 8 settembre 2021 un amico del Bataclan insiste perché lo accompagni: è un momento storico, vieni almeno a vedere. Ci va controvoglia, decisa a fermarsi a place Dauphine, prima del primo controllo di polizia. Ora che è in zona, un po’ tentata di entrare lo è, ma chiaramente è impossibile, perché non ha niente, né l’accredito, né il badge, nemmeno un documento di identità. Esce fuori un tipo magro e nervoso a cui lei e il suo amico espongono il problema, e lui dice ai gendarmi di farla entrare, e il giorno dopo le prepara un badge.
Il tipo magro e nervoso si chiama Julien Quéré, è il magistrato a cui è stata affidata tutta l’organizzazione del processo, ed è importante scrivere il suo nome perché tutti hanno una storia di questo genere da raccontare, dove Julien Quéré scioglie con un tatto e un’efficacia sovrannaturali le situazioni più inestricabili. Era il capo di questa organizzazione, tutti i suoi subordinati erano come lui e io credo che nessuno, nessuno fra le parti civili, ma in generale fra le persone che, in qualunque veste, hanno seguito il processo, si sia sentito trattato come un elemento trascurabile. Pascale Robert-Diard, la grande cronista giudiziaria di
Le Monde,
ha scritto un articolo che ha sollevato parecchie polemiche per dire che va bene avere tutte queste premure per le vittime, ma che forse si esagerava, si finiva per farle vivere all’interno di un bozzolo. È il genere di posizioni con cui mi trovo istintivamente d’accordo, ma in realtà questo bozzolo è stato prezioso, tutti sono stati contenti di essere trattati così. Tutti si sono sentiti riconoscenti. Tutti dicono: è incredibile quanto si sia svolta bene tutta la faccenda.
Ecco Aurélie che entra nell’aula. Scopre la scatola; la gabbia degli imputati è molto lontana, sulla sinistra. Quelli non vuole vederli, ma scopre intorno a lei i sopravvissuti, quelli che hanno perso una persona cara, i suoi simili dalla vita tagliata in due. Qualche giorno dopo, il presidente fa l’appello dei fantasmi, i nomi dei 130 morti risuonano nel silenzio che li abbraccia tutti e lei sente nel suo corpo, come un’onda, la dimensione collettiva di quello che succede lì, una storia più grande di lei a cui capisce che parteciperà. All’inizio viene sporadicamente, poi sempre più spesso. All’inizio resta sulle panche in fondo, poi si avvicina. All’inizio non guarda verso sinistra, verso la gabbia degli imputati, poi si mette a guardare verso sinistra, verso la gabbia degli imputati, verso la zona pericolosa, irradiata. È una frontiera tra le vittime, quando vanno a testimoniare: ci sono quelli che a un certo punto si girano verso sinistra, li guardano, si rivolgono a loro, e quelli che non lo farebbero per niente al mondo. Arriva il giorno della sua deposizione, che fa effetto. I giornali che la riprendono titolano: « Sono diventata un’atleta del lutto » . Comincia ad andare alla brasserie Les Deux Palais. Fa conoscenza con gli altri. La sequenza degli investigatori belgi, all’inizio dell’inverno, è la bassa marea del processo, una noia mortale, ma non la scoraggia. Georges Salines, che ha perso una figlia al Bataclan e non ha paura delle parole, parla esplicitamente di dipendenza. Tutte le persone a cui l’ho chiesto dicono la stessa cosa. Si sono fatti prendere, era affascinante perfino quand’era noioso; una volta saliti, nessuno è sceso in corsa. La mia esperienza personale ha meno peso, ma anch’io, all’inizio, mi dicevo, vedremo. In linea di principio mi farò tutto il processo, ma se dopo tre mesi mi sarò stufato dirò ai miei amici dell’Obs che mi fermo; saremo un po’ delusi, sia io che loro, ma ci lasceremo da buoni amici. E invece mai, neanche una volta, ho pensato di fermarmi. Non ho mai avuto voglia di uscire da quella scatola.
Sapevo, sapevamo che stavamo vivendo, insieme, ben altra cosa che un marchingegno virtuoso costruito per la Storia, l’happening giudiziario faraonico e vano che avevamo buone ragioni di temere inizialmente. Ben altra cosa: un’esperienza unica di sgomento, di pietà, di prossimità, di presenza. Solo più tardi ho preso coscienza che l’aula di tribunale assomiglia a una chiesa moderna e che lì dentro è andato in scena qualcosa di sacro. 

Aurélie: « ci hanno dato un luogo, e del tempo, tutto il tempo di cui avevamo bisogno, per fare qualcosa con il dolore. Trasformarlo, metabolizzarlo. E ha funzionato. È successo. Siamo partiti, abbiamo fatto questa lunga, lunga traversata e ora la nave entra in porto. Sbarchiamo» .
Andiamo a bere.
5. Alla brasserie Les Deux Palais
Scusate se ha l’aria frivola, non è così. La serata che è seguita è stata la più straordinaria che abbia passato e che probabilmente passerò in tutta la mia vita. Tutti quelli che c’erano vi diranno la stessa cosa. Poco a poco, tutte le persone che hanno seguito il processo sono scese dai gradini e sono affluite ai Deux Palais, questa brasserie balzacchiana, magica, dove da generazioni si ritrovano a tutte le ore, in un fruscio di toghe nere e spesso una scia di tragedia, magistrati, avvocati, giornalisti, giudicabili, coppie che hanno appena divorziato e si prendono insieme, prima di partire ognuno verso la sua nuova vita, un caffè triste e impacciato. Visto che i controlli di polizia dureranno ancora per qualche ora, bisogna mostrare il proprio badge per accedere a questo piccolo angolo dell’Île de la Cité che si ritrova, di fatto, privatizzato.
Ormai ci siamo solo noi ai Deux Palais, noi che abbiamo passato tante ore sui suoi sedili scuri, noi, questa comunità che stasera si separa. Siamo tutti là, e fra noi un buon terzo delle parti civili, abbastanza perché gli altri, quelli che non hanno sofferto, quelli come me che sono dall’altra parte della barriera, possano dirsi che lo strano tripudio di questa sera non è qualcosa di indecente. O invece sì? È indecente che i tre porcellini, i tre imputati minori che l’hanno scampata bella ma hanno comunque avuto un ruolo al servizio della morte, siano là, sbalorditi, e che tutti si felicitino con loro, li abbracciano, si facciano dei selfie con loro? L’interrogativo è lecito, le risposte variano. «Mi hanno dato più baci stasera che al mio matrimonio », dice Ali Oulkadi.
Tutti e tre hanno l’interdizione a soggiornare sul territorio francese per dieci anni, ma va bene, facciamo che i dieci anni cominciano domani, questa sera perfino i sostituti procuratori li guardano con tenerezza schiudersi di fronte al loro fan club sempre più nutrito. Così distanti durante le udienze che quasi ti facevano sentire intimidito, che non si facevano mai vedere durante le sospensioni, ora i sostituti procuratori hanno l’aria, tutti e tre, di amiconi con cui bersi un bicchiere e farsi un’escursione in montagna, passatempo preferito di Nicolas Braconnay, che non immaginiamo più con la toga nera indosso ma con una felpa Quechua. Camille Hennetier porta una toga estiva e Olivia Ronen, che ha difeso Abdeslam insieme a Martin Vettes e che sembra giovanissima, una liceale, mi dice: «Le ho dato sui nervi, eh? Non so quante volte l’ha scritto che le avevo dato sui nervi». Le rispondo sinceramente, questa sera tutti sono sinceri: «Sì, mi ha dato sui nervi con la sua aggressività e i suoi Salah qui, Salah lì, ma l’ho ammirata. Lei e Martin vi siete battuti come leoni. Peccato, secondo me, che fosse era già tutto deciso. Non potevate far nulla. E alla fine della sua arringa sembrava che camminasse sulle acque, Olivia, era bello».
6. I flash
Siamo qui, siamo insieme, commentiamo il verdetto, ci abbracciamo e quando ci promettiamo di non perderci di vista so che in molti casi sarà vero. Quello che abbiamo vissuto insieme era troppo forte, incomunicabile, quelli che non c’erano non potranno mai saperlo. A parte quelli che si sono agganciati a un tavolo, alla loro banda, molti, come me, passano di gruppo in gruppo, incrociandosi e reincrociandosi. Una decina di volte ho incrociato Yann, un giovane uomo che è stato ferito al Petit Cambodge e che è venuto al processo tutti i giorni. Dico giovane anche se ha 48 anni e i capelli grigi, perché ha l’aria giovane, slanciata, con una dolcezza attenta. È fotografo, mi è piaciuta la sua testimonianza, è diventato uno dei miei amici di processo. Al banco dei testimoni, ha descritto il momento in cui le pallottole lo hanno colpito, una sensazione di isolamento profondissima. Tutto è diventato scuro. Il suo spirito si è rifugiato in uno stato di quiete, un intorpidimento sognante da cui lo hanno strappato le urla di Gaëlle, la sua amica. Ha capito che lei rischiava di morire, che era reale. Sono strisciati insieme verso la cucina e si sono ritrovati tutti e tre (c’era anche il fratello di Yann) in questa cucina del Petit Cambodge dove c’era un telefono a muro che non la finiva di squillare, e lui si è messo a rispondere. Prima a uno che voleva ordinare dei bo-bun da portar via e a cui ha detto che per il momento non era possibile, poi a persone sconvolte che volevano sapere che stava succedendo, e lui ripeteva, inebetito, questa frase assurda: va tutto bene, ci hanno sparato addosso, ma va tutto benissimo. I feriti si lamentavano, i soccorritori portavano via dei corpi e Yann aveva delle specie di flash: ognuno di quei morti, di quei feriti, di quelle persone vive che non conosceva, le vedeva individualmente, ognuno nel suo dolore particolare e infinito, e la storia di ognuno, il dolore di ognuno, l’anima di ognuno, scoppiavano come bolle di silenzio e di luce, al rallentatore, davanti ai suoi occhi.
È allo stesso modo, dice Yann, che mi sono lasciato prendere dal processo. Ha risvegliato quei flash, quella sensazione fisica che tutti gli altri fossero intorno a me e potessi accedere, per qualche motivo misterioso, a ognuno di loro. Avevo questa fantasia: conoscere esaustivamente tutto quello che era successo sulla mia scena d’attentato. Poi il perimetro si è allargato. Continuo a essere uno del Petit Cambodge, ma poco a poco ho conosciuto le altre comunità, gli altri ristoranti, il Bataclan, lo Stade de France e perfino la rue de Corbillon ( l’edificio dove Abdelhamid Abaaoud si è fatto esplodere per non farsi catturare dalle forze speciali della polizia). Le ultime parole della deposizione di Yann: « Vi ringrazio per questo processo. Vi ringrazio di entrare nei dettagli » . È vero, siamo entrati nei dettagli e mi ricordo una cosa che ho pensato l’autunno scorso, che per me è stata una sorta di flash. Ho pensato che l’ambizione di questo processo fosse folle, smisurata, romanzesca perfino: dispiegare nell’arco di dieci mesi, sotto tutte le angolazioni, da tutti i punti di vista, risalendo il più lontano possibile, quello che era successo durante quelle poche ore di terrore. Per quanto era possibile farlo, lo abbiamo fatto. Io e Yann proseguiamo la nostra tournée, ognuno per conto suo, ma sicuri, questa sera, di incrociarci di nuovo. Non vai ancora via? No, non vado via. Al processo, se volevi vedere qualcuno, non c’era bisogno di prendere appuntamento. Si diceva: « A domani » . Sono triste pensando a tutte queste persone a cui non dirò più: « A domani » . Mezz’ora dopo, incrocio di nuovo Yann che mi dice: « Quello che sta succedendo qua, in questo momento, non ti sembra come se fosse un’allucinazione? »
7. «È stato bello»
Ci si accalca al bar, ormai si ordinano bottiglie, non più bicchieri. Gli avvocati di parte civile fanno portare dello champagne ai loro colleghi della difesa. Io sono quattro anni che non bevo una goccia d’alcol, ma stasera sono ubriaco, tutti lo siamo. Incollato al bancone, mi piego in avanti per sentire quello che mi sta dicendo un amico giornalista: «Farai anche Nizza?» Domanda ricorrente fra i giornalisti: il processo dello spaventoso massacro perpetrato da un terrorista che si gettò con un tir sulla folla radunata nella promenade des Anglais, il 14 luglio 2016, si aprirà a settembre, nella stessa aula. Rispondo di no, sicuramente: un anno a seguire un processo per terrorismo, se non è il tuo mestiere, è più che sufficiente per una vita. «Hai ragione, tanto più che sarà una cosa terribile. I fatti sono ancora più raccapriccianti: le famiglie, i bambini schiacciati nel loro passeggino; e per quanto riguarda le parti civili, il profilo sociologico non sarà quello dei ristoranti o del Bataclan, non ci sarà lo spirito del “Non avrete il mio odio”. Ma comunque si svolgerà lassù, nella scatola… Non ti verrà un po’ di nostalgia? Non sarai tentato di venire, qualche volta? Di chiedere un badge visitatore?» Si scherza, ma ha ragione: una volta che hai visto quello che succede, lassù nella scatola, se la porta si schiude di nuovo come si fa a non avere la tentazione di tornare? Sgomitando, esco sul dehors, dove due ragazze ubriache fanno delle avance alle guardie del corpo dei sostituti procuratori, che restano impassibili. Un tizio che non riconosco – non dev’essere venuto spesso – mi dice: «È strano, no, che finisca tutto nel dehors di un ristorante?» Ciondolo la testa, sì, è strano. «I ristoranti hanno vinto!», strilla il tizio. Mi allontano e incrocio Aurélie che riporta al suo tavolo una bottiglia e dei bicchieri. Le dico quello che ci stiamo dicendo tutti: «Allora è finita». «Sì», risponde lei, «è finita». Una pausa e poi: «È stato bello. Ora posso tornare a casa».
(Traduzione di Fabio Galimberti)