la Repubblica, 9 luglio 2022
La società stagnante che i numeri non sanno descrivere
La statistica è una scienza sgarbata, parla per numeri e i numeri non conoscono l’eufemismo, la perifrasi, i mezzi toni. Anche per questo il rapporto annuale dell’Istat, specie negli ultimi anni, schiocca come un colpo di frusta, richiamandoci brutalmente allo stato delle cose.
Ovviamente i numeri non dicono tutto. Non dicono dei diversi stati d’animo, delle eventuali riserve di energia, dei progetti ancora sconosciuti che stanno per germinare, dei rovesci imprevedibili che arriveranno a mutare la scena (come è accaduto, ad esempio, con la pandemia e la guerra). Però i numeri dicono molto, e comunque abbastanza per dare smentite oppure conferme di quanto crediamo stia accadendo attorno a noi. E quest’anno, ahimè, fioccano quasi solo conferme, in un Paese che avrebbe un disperato bisogno di discontinuità e novità per cambiare di umore, e riprendere tono e fiducia.
Prima tra tutte, la conferma che l’Italia è un Paese molto invecchiato, con un rapporto tra vecchi (sopra i 65 anni) e ragazzi (sotto i 15) ormai vicino a 200: i vecchi sono quasi il doppio. In vent’anni l’indice di invecchiamento è aumentato di 56 punti, descrivendo una tendenza inesorabile: meno nascite, e con madri sempre più anziane (primo figlio, in media, a 31,4 anni). Proiettando la tendenza nel futuro, secondo l’Istat tra vent’anni gli italiani vecchi saranno il triplo degli italiani giovani. L’idea che si ricava è quella di un fiume stagnante, che non riesce più a ricambiare la sua acqua.
E ad aggravare il quadro, la seconda conferma: la povertà assoluta aumenta paurosamente tra i minori e i giovani in generale. Rispetto al 2005 è quasi quadruplicata, passando dal 3 all’11 per cento nella fascia tra i 18 e i 34 anni, e dal 4 al 14 per cento tra i minori. Che esista una profonda differenza di garanzie e di occasioni, tra anziani e giovani, non può più dunque essere un’opinione: è una certezza. Il quadro economico e sociale nel quale si sono fatti largo i cosiddetti boomers era più vitale e favorevole di quello nel quale cercano di trovare posto e identità i ragazzi italiani dei nostri anni.
È un salto d’epoca ormai consolidato,e crescere e agire in unacondizione psicologica da società nascente è profondamente diverso che farlo in una società stagnante. E ovviamente la grande recessione del primo decennio del millennio prima, la pandemia poi, hanno peggiorato la situazione.
Ne consegue la terza conferma: i giovani (18-34 anni) che vivono in casa con i genitori sono 7 milioni, pari al 67,6 per cento, più o meno i due terzi del totale.
Letto a rovescio, il dato significa che in Italia solo un giovane su tre, fino ai 34 anni di età, ha lasciato la casa dei genitori. La pandemia ha incrementato questa tendenza del 3,3 per cento, non molto dunque rispetto alle colossali dimensioni del fenomeno, che nel Sud Italia sfiora il 72 per cento.
È questo, a ben vedere, il sintomo più grave di uno stato di insania che sicuramente si radica anche in fenomeni culturali e psicologici profondamente italiani (il mammismo, l’iperprotettività, l’abnorme ruolo della famiglia rispetto ai paesi del Nord Europa) che precedono di un bel pezzo le attuali ristrettezze economiche. Ma incrociando i dati, è vistosissima, e pesantissima, l’influenza della crisi economica, della penuria del lavoro, dei bassi salari, nell’aggravamento del fenomeno. L’Istat non dice (e sarebbe impossibile dirlo) quanti di questi eterni ragazzi patiscono la loro condizione, e non vedono l’ora di uscire dalla casa dei genitori per costruirsi una loro vita. Ma è immaginabile che siano tanti, e dunque insieme alla “comodità” sia la necessità a costringerli a una permanenza che anch’essa ha l’odore cattivo della stagnazione, di vite che si intoppano, di futuro che ammuffisce al chiuso.
Infine, una smentita. Gli stranieri residenti in Italia, al primo gennaio del 2022, sono poco più di cinque milioni. Nemmeno un decimo del totale della popolazione, percentuale che rende sempre più impresentabile l’idea paranoica della sostituzione etnica, tanto cara alla destra “identitaria”.
Limitato anche il numero di quelli che potremmo chiamare ex-stranieri, o meglio neo-italiani, che al termine di due decenni di cosiddetta “invasione” sono circa un milione e mezzo, in prevalenza albanesi e marocchini. Sommando i nuovi italiani e gli stranieri residenti si arriva, dunque, a poco più del dieci per cento delle persone che abitano in Italia non essendo “etnicamente” italiani, ammesso che esista una definizione etnica di un popolo già figlio di decine di popoli, dai goti agli etruschi agli arabi ai normanni eccetera.
Infine, l’Istat valuta che ad avere accesso alla cittadinanza italiana grazie allo ius scholae sarebbero 280 mila ragazzi, un quarto dei quali in Lombardia. Questo numero non suona come una conferma né come una smentita. Fossero un decimo, o dieci volte di più, non cambierebbero i termini del loro diritto di essere considerati quello che già sono: nostri concittadini, che parlano la nostra lingua e condividono il nostro faticoso cammino.
Il fatto che siano giovani in un paese vecchio li rende ancora più desiderabili come compagni di strada.