La Stampa, 9 luglio 2022
Intervista a Jonathan Safran Foer
«La crisi climatica è una crisi della capacità di credere», scriveva già tre anni fa Jonathan Safran Foer in Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi. Da tempo, il grande scrittore americano - l’autore di Ogni cosa è illuminata, Molto forte incredibilmente vicino, Eccomi, Se niente importa - riflette sul nostro rapporto con l’ambiente. Che è, al fondo, una storia che non siamo in grado di raccontare. Scriveva Amitav Ghosh ne La grande cecità: la crisi climatica è anche «una crisi della cultura, e pertanto dell’immaginazione».
La settimana scorsa in Italia un pezzo del ghiacciaio della Marmolada si è staccato uccidendo undici persone. Tutti sappiamo, tutti abbiamo scritto e raccontato, che è accaduto per via del riscaldamento climatico. In cima, sopra i 3000 metri, la temperatura arriva a 10 gradi. Non è normale, e i ghiacciai vengono giù. Eppure continuiamo le nostre vite come se nulla fosse. Com’è possibile che non crediamo a quel che tutti i giorni è ormai davanti ai nostri occhi?
«Il mondo intorno a noi sta cambiando, ma la più grande benedizione degli esseri umani - e la loro grande maledizione - è la capacità di adattarsi. Lo vediamo tutti i giorni. Io adesso sono a Parigi e penso alle cose alle quali ci siamo abituati con il Covid. Se solo pochi anni fa avessimo visto persone che camminano per strada indossando mascherine, postazioni mobili per effettuare test di positività, se avessimo dovuto mostrare il green pass per prendere un aereo, avremmo pensato di essere finiti dentro a un film post-apocalittico. Ma l’esperienza che abbiamo fatto di tutto questo ci porta oggi a non farci letteralmente più caso. Ed è avvenuto tutto molto velocemente. Ecco, anche rispetto al clima siamo dentro a un film post-apocalittico. Ne siamo i protagonisti, non gli spettatori. I disastri, le inondazioni, ci appaiono ormai completamente normali. Nella mia casa di Brooklyn, in cantina, ho creato una sorta di dispositivo anti-inondazioni che è una metafora perfetta perché per farlo ho dovuto costruire un muro che mi separa dal resto del mondo, in modo da preservare la mia qualità della vita».
È quello che stiamo facendo tutti?
«Su larga scala, è così. Cerchiamo modi per proteggere il nostro stile di vita, sebbene sappiamo che tutto questo non sarà sostenibile a lungo. Queste soluzioni non proteggeranno noi e soprattutto non proteggeranno i nostri figli e i nostri nipoti. E, allo stesso tempo, peggioriamo le cose, perché la maggior parte della popolazione del pianeta non è in grado di proteggersi. L’adattabilità degli esseri umani, la capacità di dire "ok risolvo così le inondazioni", oppure "ok metto le mascherine, faccio un test ogni due giorni, accetto che per lunghi periodi i bambini non vadano a scuola in presenza", crea una tranquillità apparente. Ma la verità è che siamo allarmati, ci sono livelli di ansia mai raggiunti, depressione. E tutto questo, invece di spingerci a fare qualcosa, è diventato carburante per la rassegnazione. Se fossimo capaci di indirizzarlo in maniera diversa, di andare verso un cambiamento, potremmo avere una chance. Ma non mi sembra stia accadendo».
Quanto c’entra, in questa inazione, la politica? Uno dei primi atti di Donald Trump fu quello di cancellare dal sito internet della Casa Bianca i documenti sui cambiamenti climatici. Nel suo libro, lei scrive che il 97% degli scienziati è d’accordo sull’esistenza e sulle conseguenze del riscaldamento globale, eppure è come se le persone non volessero crederci.
«Penso che le persone sappiano quello che sta accadendo, ma c’è una differenza tra sapere e credere. La maggioranza degli americani, inclusi i repubblicani, sa che il riscaldamento globale è causato dagli esseri umani e sa che ci avviamo verso l’autodistruzione, ma è molto diverso portare questa conoscenza fino al cuore. Se lo facessimo, saremmo motivati a fare tutto il necessario. Trump e tutto quel che rappresenta sono solo una distrazione. Ci sollevano dalle nostre responsabilità, possiamo dire "è tutta colpa dei repubblicani, dei negazionisti climatici". Ma in America abbiamo un presidente democratico, un Senato democratico e un Congresso democratico. È difficile che una simile combinazione si ripeta per un bel po’. Eppure Biden è riuscito a realizzare solo il 9% delle promesse sul clima. E questo non è colpa di Trump».
E di chi?
«Al Congresso c’è una minoranza di blocco che non lo consente e l’aggressione russa all’Ucraina ha drammaticamente cambiato la politica energetica almeno nel breve termine, ma questo è il mondo in cui viviamo e la nostra è una corsa contro il tempo. L’attivista climatico Bill McKibben ha detto: "Vincere lentamente è come perdere". E noi ora stiamo vincendo molto, molto lentamente. Nonostante sia aumentato il numero delle persone che crede in questa causa e nella scienza, e nonostante la politica finalmente si muova nella giusta direzione, siamo troppo lenti. Christiana Figueres ha detto di recente che il mondo ha cominciato un cammino suicida. Quindi non penso sia utile preoccuparsi delle poche persone che non vogliono affrontare la situazione, ma del perché la grande maggioranza di noi, mainstream, liberali, conservatori, non crediamo a quel che sappiamo. E non è perché siamo cattivi o ignoranti. Prenda me: le sto parlando da Parigi, dove sono arrivato in aereo con i miei figli. Viviamo vite piene di scelte ipocrite, ma anche le nostre scelte politiche individuali sono molto meno efficaci di quanto potrebbero essere. Io mi preoccupo del benessere dei miei figli, cerco un bravo insegnante se hanno problemi con la matematica e posso impiegare un giorno intero per trovare il miglior corso di recupero in caso abbiano avuto un brutto voto in pagella, ma in realtà sto facendo molto poco per il loro futuro. E non per mancanza di amore, ma per mancanza di immaginazione».
Non sappiamo immaginare una risposta che non ci faccia sentire troppo piccoli, e alla fine inutili, davanti a un problema globale?
«Quando accade qualcosa che non ha precedenti non siamo equipaggiati per affrontarla. E così abbiamo bisogno di trucchi, di un aiuto che ci faccia andare anche al di là della nostra preoccupazione. È per questo che probabilmente, più che in ogni altro momento della nostra storia, abbiamo bisogno di leader. E un leader non è semplicemente qualcuno che comanda, un leader - lo dice la parola - è qualcuno che sta davanti a noi e ci indica la strada. Quelli che abbiamo oggi invece sono dietro di noi, non stanno al passo. Le statistiche dicono che il 61% degli americani vorrebbe che il Congresso facesse di più sul clima, il 70% delle corporations chiede di più e oltre la metà degli americani vorrebbe che lo stesso presidente facesse di più. Così abbiamo il Congresso, le grandi aziende e il presidente che dovrebbero trascinarci sulla strada della lotta ai cambiamenti climatici. Ma non accade».
La maggiore consapevolezza delle nuove generazioni non può essere un fattore di cambiamento? Penso a Greta Thunberg, ai ragazzi di Fridays for Future. Forse saranno più capaci di noi di svegliare un mondo che appare cieco.
«I miei figli frequentano una scuola di Brooklyn molto progressista, dove tutti i genitori appartengono al mondo dell’arte, del giornalismo, della cultura, della politica. Questi ragazzini, e i loro genitori, credono in tutto quel che è giusto credere, ma lo stile di vita che conducono danneggia l’ambiente molto più di quanto non facciano i negazionisti. Può essere imbarazzante dirselo, può causare perfino vergogna, ma è importante tenere a mente che al pianeta non interessa quel che proviamo, ma quel che facciamo. E quindi non conta quante t-shirt con le scritte giuste indossiamo urlando di volerlo salvare, conta piuttosto quante azioni intraprendiamo, quante rinunce facciamo».
Questa incapacità di credere a quel che sappiamo ha riguardato anche tutta la discussione pubblica sulla guerra in Ucraina, almeno qui in Italia. È come se moltissime persone - basta leggere i social - si rifiutassero di credere a quel che vedono. Per non farsi coinvolgere, per non ammettere che quel che sta succedendo lì ci riguarda tutti, per indifferenza o per paura.
«Penso che siano tempi difficili e che anche in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa che non ha precedenti. Quando sono arrivati internet e i social media, eravamo impreparati. Siamo ormai completamente dipendenti dagli schermi. Drogati. Internet e i social media stanno devastando il discorso pubblico, stanno sollevando gli estremismi da entrambe le parti, ci stanno rendendo meno intelligenti, meno empatici e meno buoni. E nonostante questo non facciamo niente per evitarlo. Non solo il contenuto dei nostri pensieri, ma anche il linguaggio e il modo di comunicarli sono cambiati enormemente. Non sappiamo come affrontarlo, non sappiamo come resistere».
Permette ai suoi figli di usare i social?
«Il grande ha 16 anni, può usarli per comunicare con gli amici, ma non in modo pubblico. Al piccolo non lo permetto».
Quel che fa paura dei social è quanto abbiano aumentato la polarizzazione, senza la possibilità di creare un pensiero autonomo, con eterne squadre che si fronteggiano come fosse tutta una questione di tifo.
«Perché è tutto legato a una identità fittizia, a una performance, più che a un’identità reale. I social premiano esattamente questo, l’identità performante, l’estremismo, che è quello che viene più ascoltato. Non c’è futuro quando si perde il desiderio di cercare la verità, perché è stato sommerso dal desiderio di avere potere».
Cosa sta succedendo negli Stati Uniti? Neanche il massacro di Uvalde, con 19 bambini uccisi da un diciottenne che è entrato sparando nella loro scuola, è riuscito a smuovere l’opinione pubblica abbastanza da costringere il Congresso a cambiare le norme che danno accesso facile alle armi. L’America è preda di una minoranza molto organizzata o è diventata un Paese più violento di prima?
«Tutte e due le cose. Non è un’opinione, ma un fatto acclarato che i Paesi dove ci sono più armi siano i meno sicuri. C’è una ragione per cui queste stragi avvengono negli Stati Uniti e non in Europa, Australia o altrove. Stiamo anche diventando un Paese sempre più polarizzato e arrabbiato. Tutti dicevano che sarebbe successo, per via della retorica trumpiana, e infatti è successo. Nessuno può sorprendersi. La domanda da porsi adesso però è: cosa possiamo fare? Come si torna indietro? Come facciamo a diventare di nuovo un Paese civile? Penso che abbia a che fare con quello di cui abbiamo parlato: invece di questa volontà di essere ascoltati, dovremmo avere la volontà di essere capiti, e di capire. Il mio riflesso condizionato quando penso al controllo delle armi è pensare: queste persone, che negano ce ne sia bisogno, sono cattive. Ma questo modo di pensare non serve a nulla. Porta rabbia, frustrazione, e invece è importante calmarsi e provare a vedere il bene nelle posizioni di coloro con cui non sei d’accordo. Se lo fai, puoi pensare: "ok, queste persone amano la libertà. Lo fanno in un modo che io non capisco, ma proviamo a trasformare il nostro disaccordo in un accordo, in un punto di incontro". Nessuno fa più lo sforzo di cercare di colmare le divisioni, che è l’unico modo di progredire tutti».
Come nel dibattito sull’aborto dopo la sentenza della Corte suprema?
«Quello è un esempio perfetto. Io sono a favore della libera scelta, ma questo non deve impedirmi di dire che c’è qualcosa nelle persone che proclamano il diritto alla vita che rispetto profondamente. Perché proteggere la vita è un istinto bellissimo. Non sono d’accordo con loro per le implicazioni politiche della loro battaglia, non sono d’accordo su quali dovrebbero essere le norme, ma cosa accadrebbe se invece di partire dal presupposto che loro sono il male partissimo dal riconoscere nella loro posizione qualcosa da rispettare? E se loro capissero che nella mia c’è il desiderio di permettere alle donne di decidere liberamente del loro corpo? E quindi io sto difendendo la stessa libertà che loro proclamano quando non vogliono indossare le mascherine o essere vaccinati. Questo non cambia il fatto che è in corso una guerra culturale e che dobbiamo vincerla, ma forse non abbiamo speranze di vincerla se non cambiamo strategia».
E però questo ritorno al passato degli Stati Uniti fa impressione, è come se la difesa di principi considerati intoccabili fosse diventata un totem davanti a cui si consumano le ingiustizie più terribili. Penso alla bambina di 10 anni, violentata, cui è stato negato il diritto di abortire in Ohio. A quanto queste decisioni influiranno sulla parte più povera e fragile della società.
«Sono totalmente d’accordo. Ed è sempre sorprendente come le stesse persone che sono preoccupate della vita quando è nel grembo della madre non sembrino esserlo una volta che quella vita è nata, perché sono gli stessi che tolgono fondi alle scuole pubbliche, che non sono interessati alla sanità pubblica. Ma di nuovo bisogna sforzarsi di vedere le cose anche dal loro punto di vista proprio per poter dimostrare quali sono le implicazioni reali delle loro decisioni e avere una conversazione produttiva piuttosto che una lite inutile».
Quindi bisogna parlarsi invece di farsi la guerra?
«Dobbiamo fare entrambe le cose. È ingenuo pensare che si possa fare solo conversazione, ma è anche ingenuo pensare che vinceremo combattendo nel modo in cui lo facciamo, senza ascoltare, senza capire».
Quando lascia i suoi figli a scuola ha più paura rispetto a dieci anni fa?
«No. Statisticamente è molto più pericoloso andare in macchina. Dobbiamo affrontare il problema delle armi, ma non dobbiamo diventare isterici. Il mondo è un posto sicuro, parlando in generale, per bambini che hanno la fortuna di essere nati nella situazione in cui sono nati i miei figli. Il mondo non è sicuro per bambini nati in molte altre parti del mondo e anche in molte altre parti d’America, perfino in altri quartieri di New York ci sono ragazzini malnutriti. Quartieri in cui il crimine è davvero una minaccia quotidiana e non c’è accesso all’istruzione. Non mi preoccupo dei miei figli che sono molto fortunati, hanno momenti sì e momenti no come tutti gli esseri umani, ma ci sono molti altri bambini nel pianeta di cui dovremmo preoccuparci».
Sono fortunati perché hanno «un padre meraviglioso», come le disse sua madre dopo che attraversò un uragano per essere a casa con loro, a Brooklyn, durante una tempesta?
«No, sono fortunati perché abbiamo abbastanza denaro. Ed è totalmente ingiusto perché ci sono tantissime persone intelligenti, che ce la mettono tutta, intrappolate in un circolo di povertà e di violenza, senza la possibilità di migliorare la loro condizione, e non è in alcun modo colpa loro. Viviamo in una società dove sempre di più, in America, è impossibile smettere di essere ricco, quando sei ricco, così come lo è smettere di essere povero, quando non hai niente».