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 2022  luglio 09 Sabato calendario

Intervista a Mario Desiati, vincitore dello Strega

Mario Desiati è ancora «sotto choc». Prima la votazione al Ninfeo e la vittoria di Spatriati al Premio Strega con 166 voti. Poi il temporale che ha funestato la cena in suo onore al caffé della Galleria nazionale di arte moderna. «Sono arrivato a casa alle cinque - racconta al telefono, in viaggio verso Desenzano, per un nuovo incontro promosso dal Centro per il libro e la lettura - e non ho chiuso occhio fino alle sette perché stavano facendo lavori nel condominio». Sempre in viaggio: «La patria degli Spatriati è l’umanità».
Una vittoria annunciata?
«In verità no, solo a Benevento (alla votazione dei finalisti lo scorso 8 giugno, ndr) ho capito che avevo delle chance. Prima di allora non ci pensavo proprio. Anzi, avevo stretto un patto con l’editore. Non volevo avere notizie su come stava andando».
Lei ha rotto una tradizione, rifiutando di bere dalla bottiglia di Strega sul palco, lo sa?
«Sì, certo».
E ha detto di volerla stappare in Puglia, in onore degli scrittori della sua terra. Ha citato tra questi il compianto Leogrande.
«Sì, perché era un mio caro amico, uno scrittore che stimavo tantissimo. Ho lavorato con lui su due libri. Sul palco avrei voluto elencare venti tra autrici e autori, ma alla fine ho scelto due persone che fossero connesse e rappresentassero tutti gli altri: Mariateresa Di Lascia (che ha vinto lo Strega nel 1995 ma non potè ritirare il premio perché morì alcuni mesi prima, ndr) e Alessandro Leogrande, con il quale avrei voluto condividere questa gioia».
Insomma, quando festeggerà?
«Magari durante un incontro in Puglia, mentre parlo della stanza degli spiriti, l’ultimo capitolo degli Spatriati».
Lei vive a Roma, ma anche in Puglia, a Berlino. Che significa casa per lei?
«Ho dei luoghi dove ogni tanto vado. Questo periodo sarebbe perfetto per Berlino, è uno dei luoghi in cui sono stato più felice. Ma io ho anche bisogno di non stare del tutto bene in un posto»
In che senso?
«Non si può sempre stare dove si vorrebbe. Nella vita, e anche nella scrittura, ci sono momenti di pieno e altri di vuoto. Il punto è trovare l’equilibrio tra questi due stati».
Dove si sente più a suo agio?
«Dipende dal periodo. Per tanti anni mi sono sentito a mio agio nel nostro mondo, quello dell’editoria e della letteratura italiana. Quando in passato ho smesso di sentirmi bene, sono andato via. Quando ero più giovane mi sentivo bene nel mondo degli sportivi...»
Davvero?
«Seguivo moltissimo la squadra di calcio del mio paese, Martina Franca. Mi divertivo moltissimo a stare con loro, per le trasferte, mi sentivo a mio agio a stare lì».
Lei, un tifoso in trasferta?
«Sì, ci sono anche delle foto sulla mia giovinezza, che sono un po’ compromettenti e sono state fatte sparire».
Spatriati è un romanzo generazionale?
«Su questa definizione non sono molto d’accordo, perché tutti i romanzi hanno elementi generazionali. In questo libro, le generazioni dialogano senza capirsi. È questa diversità che va raccontata».
Cos’è l’amore per Desiati?
«Non si deve confondere la gentilezza con l’amore. Perché la gentilezza è così rara che la si scambia per amore. L’amore, invece, è cura della vita, dei rapporti. Per me l’amore gioca con quella parola che nel mio dialetto significa sapore.
Ovvero?
«Un frutto tiene amore significa che ha sapore. È un’espressione che si usa per la frutta fresca e racchiude un po’ il senso della vita: le cose che hanno pienezza, che sono mature, hanno amore».
La fluidità è un altro elemento forte del suo libro.
«I personaggi del libro non sono soltanto queer ma anche non conformi. Volevo allargare la fluidità ad altri livelli: personale, sociale, geografico. Claudia e Francesco sono persone che non si vogliono definire. I personaggi di questa storia possono essere attivisti Lgbtq, o anche altre cose».
È la vita a sfuggire a qualsiasi definizione?
«Sì, esatto».
Lei ha scritto dopo Spatriati un libro per ragazzi, Sognando il gatto. Come mai?
«Ne ho scritti tre di libri di questo genere. Una parte di me si sente connessa con un certo tipo di età, tra i dodici e quattordici anni».
Ora a cosa sta lavorando?
«A un romanzo che in questi mesi ho dovuto interrompere. Si ricostruisce l’albero genealogico del protagonista. Un romanzo familiare».
Come ci si sente a diventare una celebrità?
«Non vorrei proprio esserlo diventato».
Le dà fastidio essere riconosciuto per strada?
(Ride) «Se serve, metto la mascherina».