Corriere della Sera, 9 luglio 2022
Storia degli assassinii politici in Giappone
Quello che è accaduto in Giappone, benché raro, ha radici antiche. Nel Sol Levante l’assassinio politico per secoli è stato considerato una forma «estrema ma accettabile» di protesta politica parallelamente al suicidio rituale (ben più onorevole). Così almeno scrive il New York Times il 26 febbraio 1936, all’indomani dell’uccisione di Tatsukichi Minobe, docente all’Università Imperiale di Tokyo. La sua colpa? Minobe aveva pubblicamente messo in dubbio lo status di divinità attribuito al Tenno, Hirohito.
Più di recente, il 13 ottobre 1960, Inejiro Asanuma, leader dell’opposizione socialista, fu ucciso, al ritorno da un contestatissimo viaggio nella Cina comunista di Mao, da un diciassettenne, Futaya Yamaguchi, durante un comizio di fronte a mille persone: l’arma del delitto una spada corta da samurai, lo strumento che nel passato non troppo lontano serviva per regolare i conti tra fazioni o famiglie nemiche. In anticipo sui tempi, l’attentato contro Asanuma – odiato dai nazionalisti perché aveva indicato negli Stati Uniti il «comune nemico di Cina e Giappone» – fu ripreso in un filmato e dai molti fotografi presenti nella sala.
Quello che accomuna questi episodi, tuttavia, è l’appartenenza degli assassini a società più o meno segrete di estrema destra, ovvero a un’origine culturale che – in un ambiente immerso nel fanatismo – da sempre rifiuta la trasformazione del Paese avviata con la riforma Meiji, a partire del 1868. La modernizzazione a tappe forzate, insomma, che ha posto fine al Medioevo nipponico, ha avuto come conseguenza una risposta di segno opposto di quella parte del Paese più legata alle tradizioni. In questa ottica va poi inquadrato il suicidio del celebre scrittore Yukio Mishima, nel 1970: l’autore di «Confessioni di una maschera» fece seppuku (più elaborato del harakiri perché coinvolge una seconda persona che amministra la decapitazione) per protestare contro l’«occidentalizzazione» del Giappone e l’irrilevanza del Tenno.
Ma è questo il caso della tragica aggressione a Shinzo Abe? Per quanto prematuro, è possibile ipotizzare il gesto in un contesto di estremismo politico-religioso. Tuttavia, Abe non era più al potere dal 2020. E comunque lui stesso – per due volte premier liberal-democratico e quello con la più lunga permanenza al potere – ha spesso suscitato l’entusiasmo delle frange più conservatrici del Sol Levante. Per attribuire un significato ai due spari che hanno ucciso l’ex primo ministro occorrerà dunque attendere qualche spiegazione da parte delle autorità su motivazioni ed eventuali complicità, senza escludere il gesto di un pazzo. Anche se così fosse, resteranno comunque più domande che certezze in un Paese che nel 1945 ha deciso di archiviare la guerra come strumento politico sulla scena del mondo ma ha lasciato, o non ha potuto eliminare definitivamente, spazio all’idea che la violenza possa talvolta essere l’unica soluzione ai contrasti politici.