il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2022
Biografia di Helmut Ducadam
Era il 7 maggio del 1986, quando un portiere di notte, in guanti e baffi, uscì dalla cronaca ed entrò nella storia. Un portiere come molti, una notte come poche. Helmut Ducadam (o Helmuth Duckadam, viste le origini tedesche), romeno di Semlak, al confine con l’Ungheria. Giocava nella Steaua Bucarest, il club che stava alla famiglia Ceausescu come il Real Madrid a Francisco Franco. Retaggi e pedaggi di un potere, ambiguo, che liscia i tifosi e storpia gli avversari.
Aveva 27 anni, era grande e grosso: un omone con già un paio di “scudetti” nella cesta. C’era in palio la Coppa dei Campioni. Finale a Siviglia, Barcellona contro Steaua. Il muro di Berlino non era ancora caduto, “Go Est” in attesa di “Go West”. Figuriamoci: non uno che non desse favorito il Barça, cinico fustigatore della Juventus di Michel Platini (e Marco Pacione). Successe, viceversa, qualcosa di magico, di romanzesco. Non la trama: noiosa. Non il risultato: uno squallido 0-0. Alludo al resto, non proprio una mancia. Ducadam parò quattro rigori su quattro. E dal momento che i suoi ne avevano realizzati “almeno” due, trionfò la squadra dell’Esercito, prima società del blocco orientale a fregiarsi del titolo.
Le mani: “Badili proletari”, chioserebbe da lassù l’immaginifico Vladimiro Caminiti. Un tipo strano, quel traliccio di portiere: adora il poker, gli piace camminare per strada e si diverte a chiedersi – come ha scritto Jonathan Wilson nel libro The Outsider – “che cavolo gli frullerà mai per la testa, a questo?”.
È la coda dei penalty: c’è chi parla di lotteria e chi di esame balistico. Secondo gli anziani della tribù, sono stampelle per i custodi più scarsi. Il fiuto, il sedere, la voglia: non servono lauree. Comincia José Alexanco. Ducadam lo fissa. Tiro alla sua destra, né angolato né forte. Una pacchia. E uno. Angel Pedraza battezza il medesimo spicchio. Helmut ci arriva di slancio, in bello stile: sarà il timbro più chic. E due. Tocca a Pichi Alonso, uno specialista. La montagna romena lo interroga interrogandosi, sul filo dell’agitato labirinto che zavorrò la Palombella rossa di Nanni Moretti. Morale: tuffo sulla destra, la sponda prediletta, e destino in grembo, docile. E tre. Nel frattempo, Marius Lacatus e Gavril Balint avevano demolito l’equilibrio. Marcos non ha scampo: deve segnare. Si fiutano. Ducadam capisce che pagherebbe per non essere lì: non nasconde le carte, nasconde se stesso. Così la vittima diventa carnefice, e il carnefice vittima. Fa un passo verso destra e poi si butta a sinistra. Frastornato, impaurito, Marcos si arrende in fretta. E quattro.
Di seguito, il protocollo imporrebbe: We are the champions a palla, pullman scoperto e i guerrieri promossi cavalieri, sul campo e a palazzo. Invece no. E non solo perché erano tempi sospesi nel vuoto. Ducadam scompare. Letteralmente. Il 12 giugno (del 1986) viene operato d’urgenza a Bucarest per una trombosi al braccio destro. Il 28 settembre 1989 riaffiora nel Vagonul di Arad, dai fasti andalusi alla serie B. Briciole di carriera. Le ultime. Le date indicano una voragine di 39 mesi. Siamo ancora nella Romania prigioniera, si fa presto a lavorare di misteri, di complotti. E, perché no, di vampiri. Le voci corrono, la fantasia dilaga. Si va da una fucilata durante una battuta di caccia alle botte degli sgherri di Valentin, figlio del dittatore. Narrano che re Juan Carlos, sfegatato madridista, avrebbe regalato all’eroe una Mercedes per lo smacco inferto (al Barça) e che il rampollo, pur di averla, sarebbe stato disposto a tutto. Non manca un cenno agli intrighi di Nicu, fratello di Valentin, simpatizzante della Dinamo, protesi della Securitate, la polizia segreta del regime.
Inviato della Gazzetta dello Sport, intervistai Ducadam, ad Arad, nel 1990. Ceausescu e la moglie Elena erano stati appena fucilati, i moti di Timisoara avevano scosso l’orgoglio patrio, si avvertiva il fermento delle svolte epocali, per quanto la confusione ne rigasse le albeggianti pulsioni. “Stavo giocando con i miei figli, Robert e Brigitte, scivolo e mi faccio male a un braccio. Dolori sempre più acuti. Penso: saranno i soliti, maledetti, problemi di circolazione. Mi portano dal dottore. Diagnosi secca: trombosi. Altro che macchinona, altro che imboscate. Quattro ore sotto i ferri e un verdetto che è una lapide: preghi il suo Dio”. Se non Valentin, chi? “A mettere in giro simili panzane – rispose – è stato Nicu. Il più geloso e invasato della compagnia. Io con Valentin non ho mai avuto rogne. Amava il football e trovava nella Steaua il suo sfogo, il suo Luna Park”. Era un gennaio di folle neve, quell’inverno improvviso di libertà. Confessò: “La rivoluzione? L’ho fatta. Il Fronte di salvezza nazionale mi aveva nominato membro del consiglio di Arad. Distribuivo medicinali e prodotti alimentari, per una settimana ho dormito in municipio. Tenevo sempre con me la carabina, quella sul cui calcio avevo intagliato una piccola Coppa dei Campioni e le mie iniziali. Ho sparato, sì. Proprio vicino a me vidi morire un giovane, si chiamava Gruber Gheza, di sangue magiaro, un ragazzo dolce e coraggioso. Ci eravamo conosciuti per caso, subito amici, sognavamo a occhi aperti”.
Oggi Helmut ha 63 anni. Mi mostrò una scassatissima Dacia che ronfava in cortile. Con 200 dollari, il premio per la vittoria. E la Mercedes? I baffi alla Zibì Boniek esplosero in una risata. Undici metri possono cambiare la vita, ma senza esagerare.