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 2022  luglio 08 Venerdì calendario

Intervista a Giulio Tremonti

L’Europa continua ad appassionarlo perché riconosce che il momento è cruciale: «Siamo a un tornante della storia europea», ci dice Giulio Tremonti nel corso della conversazione. E tra i riferimenti che gli tornano alla mente, quasi tutti vissuti in prima persona, c’è anche un Albert Camus del 1957, da interpretare nella sua attualità e anche nella sua forza profetica (Tremonti ci tiene, e alla fine recupera la citazione integrale): «Le ferite della guerra sono ancora troppo aperte, troppo dolorose perché si possa sperare che le collettività nazionali facciano lo sforzo di cui solo individui superiori sono capaci».
Professor Tremonti, è d’accordo che con la pandemia e la decisione di liberare i fondi per il piano di ripresa l’Europa ha cambiato passo rispetto al passato?
«Sulla questione degli eurobond penso di avere un certo curriculum: era il semestre di presidenza italiana del 2003 quando proponemmo emissioni di titoli europei per le infrastrutture e per la difesa dell’Ue. L’idea fu osteggiata per ragioni di pregiudizi sul debito, ricordo ancora la reazione di Gordon Brown all’epoca cancelliere dello scacchiere: "Nice, ma questo è nation building, no thanks", è un affare dei singoli Stati, no grazie… Nel 2020 però finalmente gli eurobond sono arrivati, l’Europa si è messa dalla parte giusta della storia, e aggiungo che ha fatto bene anche nella politica dei vaccini: è di competenza dell’Unione il contrasto ai flagelli internazionali che varcano i nostri confini».
Poi è arrivata la guerra. E di nuovo l’Europa è stata piuttosto rapida nel mettere in atto le sanzioni nei confronti della Russia, non trova?
«Con la guerra la sequenza sull’asse del tempo è paradossale: a gennaio la Corte europea condanna la Polonia definendola "fuori dallo stato di diritto", e la commissione chiede una decurtazione dei fondi, un prelievo diretto, misure pesanti insomma. Dieci giorni dopo la Polonia accoglie i rifugiati e passa dalla polvere all’altare. Penso fosse lievemente esagerato dire che la Polonia fosse fuori dallo stato di diritto, e quindi è stato un bene che sia stata poi diversamente coinvolta nell’azione comunitaria. Per quanto riguarda le sanzioni alla Russia, è presto per fare una valutazione, per capire le proporzioni dell’impatto sulla loro economia».
Infine c’è stato l’allargamento della Nato a Finlandia e Svezia e la procedura accelerata per un ingresso dell’Ucraina nell’Unione. L’Europa ne esce più forte o più debole?
«Guardiamo i fatti con ordine: abbiamo visto i grandi leader europei presentarsi in Parlamento per proporre la modifica dei trattati con l’abolizione dell’unanimità, che in risposta hanno avuto quattordici rifiuti da altrettanti Paesi. Parallelamente, abbiamo avuto le proposte di Macron e Letta per modelli alternativi all’Unione: hanno parlato della creazione, in pratica, di due entità, una che resta con il vecchio Trattato, e l’altra che andrebbe a formare un nuovo corpus politico – una confederazione – comprensiva dell’Unione Europea e di altri Stati».
Non la convince?
«Mi ricorda la formula bizantina del "quasi". L’unità del diritto romano si rompe a Bisanzio con i "quasi delitti" e i "quasi contratti". Ecco, l’idea della Confederazione è quella di una "quasi Unione"».
Torniamo all’allargamento, cosa ne pensa?
«Stiamo sottovalutando i Balcani occidentali, che come diceva Churchill sono "un luogo in cui si produce più storia di quella che si consuma, e quindi si esporta". Il fatto che il governo italiano torni dalla Turchia con una serie di protocolli che ricordano una versione new age dei capitolati ottomani deve far riflettere. È serio uno schema che preveda la Turchia e la Serbia nell’Unione? Sono squilibri da considerare».
Quale futuro politico vede per l’Europa?
«Nel manifesto di Ventotene c’è scritto che "gli Stati nazionali giaceranno come carcasse", e che "l’alternativa è costituire uno Stato federale che disponga di una difesa europea". L’idea prosegue con De Gasperi, viene bloccata da De Gaulle, e poi la storia dell’Europa fa una curva, passando da un vacuum militare a un plenum economico, con la gloriosa fase del mercato comune, che arriva fino ai giorni nostri. Da quando gli inglesi sono fuori però si è tornati a immaginare una difesa europea, von der Leyen ne ha parlato nel 2021 avanzando varie formule interessanti, come quella di non mettere l’Iva sulle transazioni riguardanti le armi, e si immaginava un vertice sulla difesa europea».
Poi però?
«C’è stato il summit Nato di Madrid, e lì il processo si interrompe, perché quello che viene fuori sembra una fusione dell’Unione con la Nato. È la Nato che traccia il profilo strategico, e la presenza dei Paesi asiatici (ancorché come ospiti) la mette su un livello globale. Non si può negare che l’idea della difesa europea venga messa in crisi. Ed è un errore, perché la difesa europea è un elemento costitutivo dell’Ue, e il cammino verso un’unione politica è la vera speranza dell’Europa. Per non parlare del fatto che gli interessi della Nato sono più sul fronte asiatico che nei Balcani, nel Mediterraneo o in Africa».
L’attuale credibilità dell’Italia in Europa potrebbe consentire il lancio di nuove iniziative?
«Mi fa un’altra domanda?»
Cosa pensa delle ipotesi che la vedono alla guida di un possibile schieramento conservatore?
«Ritenti».
È preoccupato per l’inflazione?
«Molto, basti pensare che ai miei tempi l’unità di misura era il billion, adesso è il trillion…».