La Stampa, 8 luglio 2022
Il doppio gioco Erdogan
Poco più di un anno fa, nell’aprile del 2021, il presidente del consiglio Mario Draghi, in una definizione che provocò qualche imbarazzo definì Recep Tayyip Erdogan un "dittatore". Ma aggiunse: «La considerazione da fare è che con questi dittatori di cui però si ha bisogno per collaborare, o meglio cooperare, bisogna essere franchi nell’esprimere la diversità di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese». Questa dichiarazione - che provocò la reazione immediata di Ankara (venne convocato l’ambasciatore italiano in Turchia, Massimo Gaiani, e il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavu?o?lu, definì "impudenti" le parole di Draghi) - ebbe il merito di svelare l’ambiguità che da anni guida le relazioni dell’Europa con la Turchia. Martedì scorso Draghi è volato in Turchia per il primo incontro dopo l’incidente diplomatico di un anno fa per rilanciare l’alleanza tra i due Paesi e sostenere il ruolo turco di mediatore tra Russia e Ucraina.
In mezzo c’è la crisi alimentare - l’esportazione di milioni di tonnellate di grano attraverso corridoi sicuri sul Mar Nero - gli accordi economici bilaterali tra Turchia e Italia, la crisi migratoria in Libia.
L’Occidente ha una lunga storia di alleanze e patti con regimi e leader autoritari il tutto il mondo, alleati discutibili ma necessari. È il principio che regola le negoziazioni, che cerca di mantenere equilibri tra le parti perché è noto che si negozia con gli avversari e non con i sodali.
In cima alla lista di alleati necessari e discutibili per l’Europa c’è proprio Erdogan. Necessario per arginare il flusso migratorio nel 2015, per esempio, nonostante abbia minato la democrazia turca, invaso i territori curdi, incarcerato oppositori politici e giornalisti e da ultimo minacciato di bloccare l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia ponendo sul piatto proprio le sorti della minoranza curda che l’Occidente ha più volte dimostrato di essere pronto a sacrificare.
È il realismo della politica e in questo Erdogan fa scuola da anni, e la fa proprio nelle relazioni con la Russia, che l’Europa avrebbe dovuto osservare con maggiore attenzione.
Per scoprire che i due leader si somigliano molto più di quanto pensiamo e che hanno trovato in diversi scenari un equilibrio che li ha resi non amici ma non nemici.
Russia e Turchia rimangono su due fronti diversi del conflitto siriano, con la Turchia che sostiene i ribelli anti-Assad. Non c’era accordo sulla Libia, poiché i mercenari russi aiutavano il generale Khalifa Haftar mentre la Turchia inviava truppe per sostenere il governo di Tripoli. In Ucraina, la Turchia, in teoria, si oppone con veemenza all’annessione della Crimea da parte della Russia, patria dei tartari turchi. Eppure resiste l’alleanza di cui oggi è utile ricordare le radici per non fare l’errore - pensando di trovare un negoziatore per la crisi globale generata dall’invasione russa dell’Ucraina - di alimentare il potere ricattatorio di Ankara.
È vero che l’Occidente ha bisogno della Turchia dalla sua parte nella guerra economica contro la Russia, perché il sostegno di Ankara può limitare il flusso di merci russe sanzionate dentro e fuori il Mar Nero, ma è vero anche che la Turchia è diventata una delle principali destinazioni per il denaro russo in fuga dalle sanzioni e i due Paesi condividono interessi energetici in aree cruciali del Mediterraneo e dell’Asia.
Si scrive Libia si legge petrolio
La Russia e la Turchia sostengono da anni due governi contrapposti in Libia.
Mentre il governo di Tripoli è supportato da Turchia e Qatar, l’uomo forte con base a Est Khalifa Haftar ha il sostegno della Russia (oltre Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti).
Quando nel 2019 Haftar attacca Tripoli, l’allora primo ministro libico chiede invano sostegno agli alleati europei. Così, dopo l’arrivo dei mercenari russi del gruppo Wagner, Sarraj corre ai ripari e stringe due accordi coi turchi. Il primo è militare: la Turchia invia i droni Bayraktar, gli stessi che oggi arrivano in Ucraina, ribaltando le sorti della guerra e liberando Tripoli.
In cambio dei droni Erdogan chiede e ottiene un secondo accordo, trattato sui diritti di perforazione del gas nel Mediterraneo, che traccia una linea verticale attraverso il Mediterraneo, interrompendo i piani tra Grecia, Cipro, Egitto e Israele sui diritti di trivellazione di petrolio e gas. Secondo il patto con la Libia, la Turchia assorbirebbe una parte delle acque territoriali della Grecia. Ankara lo fa forte del fatto che non ha mai riconosciuto la convenzione Onu del 1982 sui confini marittimi, non riconosce la Repubblica di Cipro Sud e i suoi accordi per una zona economica esclusiva con Egitto, Libano e Israele, dunque ritiene di operare in acque di propria competenza.
L’Europa si preoccupa, Grecia, Cipro e i Paesi Ue chiedono che i loro interessi energetici nell’area vengano difesi.
Erdogan tira dritto, capitalizza la debolezza del governo di Tripoli, l’assenza dell’Europa e si prende gli interessi su una fetta di Libia. Anche per questo Draghi pone al centro il tema migratorio durante l’incontro turco: sa che l’influenza che prima aveva l’Italia sulle coste libiche è stata parzialmente rimpiazzata da quella turca ed è di nuovo con lui, Erdogan dunque, che bisogna discutere della gestione dei flussi migratori.
Si scrive Libia si legge petrolio, si scrive Libia si legge alleanze fluide e sovrapponibili.
Nel 2020, mentre l’Europa cercava una mediazione, che sarebbe poi fallita, tra i governi libici di Haftar e al-Sarraj, Putin e Erdogan (antagonisti sulla carta) erano a Istanbul a inaugurare il Turkish Stream, il gasdotto da 930 km, del valore di quasi 7.000 milioni di dollari, che può trasportare fino a 31,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Siberia in Europa orientale attraverso la Turchia. Alla cerimonia di inaugurazione Putin disse che il gasdotto era un segno di "cooperazione" che sottolineava l’amicizia tra Ankara e Mosca. L’anno scorso attraverso questa rotta, la Bulgaria ha ricevuto 10,5 milioni di metri cubi di gas; la Grecia, 9,6 milioni; la Serbia, 8,9 milioni; Romania, 8,5 milioni; Ungheria, 6,3 milioni, e Macedonia del Nord, 1,7 milioni.
A fine giugno il consorzio statale russo per il gas Gazprom ha sospeso i flussi di gas attraverso il gasdotto Turk Stream per una settimana «a causa della manutenzione preventiva», si legge nel comunicato. Una ritorsione russa verso l’Europa, certo, ma anche un modo per ricordare a Erdogan che prima di essere un "negoziatore" con l’Ucraina, è un socio d’affari del Cremlino.
Lungo le linee del gas
Un terreno di simile equilibrio per Russia e Turchia è il Caucaso meridionale e anche qui occorre tornare indietro di almeno un paio d’anni quando nell’ottobre del 2020 si riaccende la disputa territoriale lunga trent’anni tra Azerbaigian e Armenia che si contendono il Nagorno-Karabakh. Diversa la guerra, stessi gli alleati: la Russia a sostegno dell’Armenia e i turchi dell’Azerbaijan. Quando riprendono i combattimenti nel 2020 la Turchia invia armi e truppe mercenarie e la Russia lancia un messaggio chiaro all’Azerbaijan organizzando l’operazione KavKaz 2020 (Caucaso 2020): un’esercitazione di 1.500 truppe russe e armene non lontano dal confine, un modo per dire agli azeri che il Cremlino ritiene il Caucaso meridionale una sua naturale sfera di influenza.
Il conflitto in Nagorno Karabakh proietta l’antagonismo tra la Russia e la Turchia in uno scenario simile a quello libico: Paesi rivali ma non del tutto nemici.
Per comprendere a pieno l’interesse delle due grandi potenze nel Caucaso è sufficiente osservare la cartina geografica. Al centro del conflitto gli idrocarburi del Caspio che transitano nel Caucaso e al centro il Nagorno-Karabakh che funge da corridoio per gli oleodotti che portano petrolio e gas ai mercati mondiali.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica l’Azerbaigian ha cercato di esportare il proprio petrolio e gas senza fare affidamento sugli oleodotti russi, ha attirato investitori occidentali, installando oleodotti e gasdotti che hanno permesso al Paese di trasportare la sua energia dal Mar Caspio ai mercati internazionali, uno dei motivi che ha attratto investitori turchi negli ultimi decenni e una delle ragioni, dunque, del coinvolgimento diretto di Ankara nel conflitto.
Nonostante le premesse e le ostilità, Erdogan e Putin hanno negoziato per risolvere la crisi, imposto una tregua e favorito una soluzione politica.
Nella partita del Nagorno Karabakh è stata la Russia a vestire i panni del negoziatore.
Lo scorso 8 giugno, quando il ministro degli Esteri russo Lavrov è volato ad Ankara dal suo omologo Cavusoglu, sul piatto non c’era solo il grano ucraino, ma anche gli affari del Caucaso. Cavusoglu ha ringraziato la Russia per il ruolo di facilitatore nella normalizzazione dei rapporti tra la Turchia e l’Armenia e dato il via libera a un forum di 6 Paesi per raggiungere la pace tra Azerbaigian e Armenia nel Caucaso. Una mano lava l’altra.
Il negoziatore Giano bifronte
Ecco dunque che quando l’Europa pensa a Erdogan come negoziatore della crisi non deve dimenticare le analogie dei due leader nel gestire il potere: le denunce dei cittadini alla Corte europea dei diritti dell’uomo, i sistemi di controllo di entrambi i Paesi che ignorano lo stato di diritto, le elezioni sempre meno libere, sempre meno eque. La retorica delle loro narrazioni bellicosa e revisionista. L’opposizione perseguitata e repressa. Gli abusi contro la minoranza curda, che tanto ricordano la condotta russa in Ucraina.
Più l’Occidente cerca una politica di appeasement con la Turchia, più Erdogan è stato sfacciato e ricattatorio, nel 2019 acquisendo il sistema di difesa aerea russo S-400, che si ritiene rappresenti una formidabile sfida per gli aerei della Nato, e poi usando i migranti come arma per minare la stabilità dell’Europa meridionale.
La stessa Europa che dal 2016 paga ad Ankara 6 miliardi di euro per evitare che i 3 milioni e 700 mila siriani che il Paese ospita arrivino in Grecia.
È di questo che parliamo, quando parliamo di Turchia.