la Repubblica, 8 luglio 2022
Biografia di James Caan
«Una volta ho urtato un tizio in un bar, quello si è girato e mi ha detto: scusa, Sonny!». Un attore lavora tutta la vita, passa da un successo a un fallimento, a un altro successo, a una ricca serie di disastri – non solo artistici. Però, quel tizio nel bar ti chiama Sonny e ti chiede scusa anche se sei stato tu, a urtarlo. Perché Sonny era un tipo pericoloso, che si infiammava per niente. E quel ruolo ti è rimasto attaccato tutta la vita. Addio Sonny.
Se n’è andato James Caan, un attore americano a suo modo indimenticabile. Il ruolo nel Padrino – il figlio prediletto di Don Vito Corleone, quello che dovrebbe diventare l’erede, mentre il più delicato Michael dovrebbe studiare e lavorare dietro le quinte – valeva una vita. Il padrino (1972) è uno dei più grandi film americani di sempre ma ha anche una delle storie più bizzarre di sempre. Tutti sanno che il produttore Robert Evans voleva dirigerlo: ma commise l’errore di chiedere aiuto per la sceneggiatura a Coppola, che se ne impossessò. Magari non tutti sanno che, dopo essere stato scritturato per il ruolo di Sonny, Caan era stato dirottato su quello di Michael. Per Sonny, che nel romanzo di Mario Puzo è descritto come un fusto donnaiolo, la Paramount pensava a roba forte: Warren Beatty, Ryan O’Neal, Robert Redford. Tre superbelli che ben difficilmente potevano passareper italoamericani. Poi Coppola scelse Al Pacino per il ruolo di Michael e Caan tornò a essere Sonny. Muore nel primo film, crivellato di pallottole. Per cui nel magnifico Il padrino parte II (1974) compare solo in alcuni flashback.
Peraltro, neanche Caan era italoamericano. Però aveva una bella faccia da pugile che lo rendeva etnicamente eclettico. Era figlio di due ebrei di origine tedesca, nato il 26 marzo 1940 nel Bronx (come un altro ebreo americano di talento, un certo Stanley Kubrick). Al college era un asso del football, come un altro ebreo americano, Sydney Pollack. Ma a volte questi ragazzotti americani le cui radici affondavano negli shtetl, nei villaggi yiddish dell’Europa centrale, nascondevano un animo sensibile sotto la scorza da bullo. Il “jewish cowboy” James Caan (così lo chiamavano a scuola) provò a recitare, esattamente come Pollack (che nasce attore prima di diventare un superbo regista) e trovò la propria strada. Il primo ruolo nel quale è riconoscibile è quello di un marinaio in Irma la dolce (1963), diretto da un altro ebreo americano: Billy Wilder. Ma poi arriva il momento magico in cui Caan si emancipa dalle proprie radici in un contesto gloriosamente wasp: l’incontro chiave è con Howard Hawks, John Wayne e Robert Mitchum sul set di El Dorado (1967), in cui Hawks e Wayne rifanno i se stessi di Un dollaro d’onore. Caan è Mississippi, giovanotto in cerca di vendetta con un difetto grave, nel West: non sa sparare, però è velocissimo con il coltello che tiene nascosto infilato nel colletto. È un ruolo con spunti comici, con Mitchum che per tutto il film chiede a Wayne «ma chi è quel tizio?» e nessuno sembra sapergli rispondere. Lo schema funziona: fare un ruolo drammatico mettendoci ironia. Caan capisce l’antifona, e non si ferma più. Gira Non torno a casa stasera con Coppola, 40.000 dollari per non morire con Reisz, Strade violente con Mann, fa coppia con Barbra Streisand in Funny Lady, incarna un perfetto antieroe distopico in Rollerball.
Sono anni – i 70, i primi 80 – in cui sembra pronto a diventare il nuovo Marlon Brando: del resto, nel Padrino è stato suo figlio, no? Poi, nel pieno degli anni 80, a Hollywood scoppia una moda pericolosa: la cocaina. E Caan ha un ottimo/pessimo maestro: pare che sul set di Killer Elite, diretto dal genio pazzo Sam Peckinpah, se ne consumassero tonnellate. Caan ci casca in pieno, come racconterà amaramente anni dopo. Diventa inaffidabile, sul set e fuori. I ruoli si diradano. Con gli anni, Caan si ripulisce e torna alla ribalta: sono rimarchevoli le apparizioni in Dogville di Lars von Trier e nella serie Las Vegas. Ma ormai è tempo di salutarlo, prima che si annoi: una sua frase, in un’intervista a Esquire del 2007 (da cui è tratta la battuta su Sonny dalla quale siamo partiti) suona: «Non c’è nulla di più noioso degli attori che parlano di sé». E allora addio, Sonny: sono stati 82 anni sulle montagne russe, altro che Rollerball.