il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2022
Mezzo milione via da scuola: emergenza dispersione
Luca ha 17 anni. Ama la musica e si trova in una una comunità per minorenni. È andato poco a scuola, si è iscritto più volte a una prima superiore, ha preso la licenza media con difficoltà. Lo staff educativo della struttura ha deciso di inserirlo in un liceo musicale. Una scuola professionale o un istituto tecnico, hanno pensato, potrebbe peggiorare la sua situazione. Luca trova docenti e dirigenti accoglienti. Redigono un percorso su misura. Eppure non riesce a integrarsi: i compagni sono più piccoli, la motivazione scarsa, il percorso individualizzato amplifica le differenze. “In più a un certo punto c’è un muro – racconta Antonella Concordia, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice dei progetti educativi di una comunità di accoglienza minori di Arezzo – è come se per una sorta di deficienza acquisita i ragazzi non si sentano più capaci di apprendere e questo li autoesclude dal contesto scolastico istituzionale”.
Il mostro a più teste. La dispersione scolastica è un mostro a molte teste. Il corpo che le accomuna è in molti casi la povertà, economica e culturale. La comunità di Arezzo da cui partiamo per questo racconto accoglie ragazzi che arrivano da procedimenti penali, migranti o affidati dai servizi sociali. L’abbandono scolastico è solo un aspetto della costellazione di problematiche delle loro esistenze. Il loro arrancare è aumentato nel tempo. Cambiano istituti, peregrinano, cercano una collocazione. Alcuni arrivano alla licenza media grazie ai servizi educativi domiciliari. “La scuola è la cartina di tornasole del loro disagio – spiega Concordia – è il loro contesto relazionale preferenziale: lì diventano evidenti le difficoltà”.
I numeri. Nonostante l’Italia abbia fatto progressi rispetto al 2010, la quota di chi lascia la scuola è tra le più alte dell’Ue. Secondo l’ultima indagine dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza siamo al quartultimo posto per abbandoni precoci: il 13,1% rispetto alla media Ue, che è 9,9%. Parliamo di circa 543mila giovani. Gli studenti provenienti da contesti familiari, culturali e sociali più fragili, spiega il rapporto, hanno un peggior rendimento scolastico e rischiano maggiormente di abbandonare gli studi. Non solo. “Maltrattamento, negligenza, svantaggio socioculturale e ambientale, vulnerabilità, povertà educativa, disuguaglianze” sono costanti che spesso si influenzano. I bambini “dimostrano, soprattutto dopo l’ingresso a scuola, maggiori difficoltà di comportamento, apprendimento e integrazione, più probabilità di fallimenti”. Tra gli stranieri, il tasso di abbandono è tre volte maggiore: il 4,2 % contro 1,8% (secondaria).
Il lavoro minorile. Il fenomeno è più consistente al Sud. Sicilia, Calabria, Campania e Puglia (rispettivamente 19,4%, 17,3%, 16,6% e 15,6%) guidano la classifica. In alcune periferie si sale al 30%, anche nelle grandi città e in regioni come Piemonte, Lombardia e Lazio: “Nelle zone più fragili bisogna istituire aree di educazione prioritaria – spiega al Fatto l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti – e non stiamo parlando di soli ragazzi migranti ma anche di italiani che provengono da un contesto disagiato”. Roberto vive in una casa popolare di Roma occupata quando lui e i suoi tre fratelli avevano pochissimi anni. Oggi 15enne, non va a scuola da tre anni. “Lavoro con mio padre – spiega – svuotiamo le cantine”. Il padre è contento: “Meglio così che sotto i palazzi a spacciare come i suoi amici”.
Devianza e baby gang. La pandemia ha infatti intensificato le difficoltà dei più giovani. Accessi al pronto soccorso, autolesionismo, abuso di sostanze. In generale, è aumentato il disagio psicologico e psichiatrico tra gli adolescenti (su cui torneremo con un approfondimento dedicato). “Il fenomeno delle baby gang non è stato risparmiato”, dice la psicologa Concordia. Là dove non riescono famiglia e scuola, “i ragazzi più vulnerabili trovano, nell’identificazione in negativo, un contesto che diventa un po’ famiglia, un po’ accoglienza. Insomma, un gruppo con cui confrontarsi” con gerarchie, ruoli e riti di passaggio. L’anno scorso quasi 21 mila minorenni e giovani adulti sono stati presi in carico dai Servizi Sociali, 815 ragazzi in istituti penali: in lieve aumento rispetto al 2020. Furti, rapine ma anche possesso e spaccio di droga, fino alle lesioni personali. “Gruppi di minori – aveva detto la ministra della Giustizia Cartabia – talvolta usati come manovalanza dalla criminalità organizzata”.
La cultura. In più, ci sono le influenze culturali: la musica, i vestiti, l’esibizionismo sui social attraverso armi, lame, violenza. Questi ragazzi arrivano da contesti socioeconomici svantaggiati “e oggi non avere un telefono adeguato è un marcatore di provenienza sociale” continua Concordia. Hanno introiettato l’idea che si possa raggiungere una vita agiata senza sforzo. “Sono, in sintesi, anche figli del benessere riflesso della società ma senza la cognizione della fatica che serve per raggiungerlo. La scuola come ascensore sociale o come mezzo per emanciparsi sembra più efficace per i ragazzi di seconda generazione che, quando ben integrati, sono tra i più brillanti perché, non figli della sicurezza economica ‘per diritto’, devono costruirsi un futuro da zero”.
Le proposte. E la scuola ? Bisogna intervenire in modo trasversale, spiegano gli esperti: sulla formazione dei docenti, sulla didattica, sulla presenza di psicologi. “I bambini in Italia non sono ancora tutti nelle stesse condizioni di partenza” dice la Garante. I nidi e le scuole dell’infanzia non sono per tutti, il tempo pieno e le mense al Sud spesso non esistono”. Servono risorse per rendere eccellenti scuole e servizi frequentati dai bambini in situazione di vulnerabilità “con risorse educative aggiuntive rispetto alla media”. Il contesto conta altrettanto: “Vanno mappate le aree geografiche con maggiori difficoltà sociali, economiche, culturali e attraversate da processi migratori”. Ed è indispensabile potenziare i legami scuola-famiglia-servizi, si legge nel rapporto. “Servizi sociali, sanitari ed educativi devono fare squadra visto che l’intelligenza, e in generale lo sviluppo delle abilità cognitive, sociali ed emotive, non si eredita per via genetica, ma si forma in un complesso rapporto con l’ambiente in cui cresce il bambino”. Si deve, insomma, “creare una continuità, altrimenti il ‘fuori scuola’ non è sussidiario, ma antagonista”. Tutto il contrario di quanto sta facendo il ministero.