Il Messaggero, 7 luglio 2022
Intervista a Zibì Boniek
Domani sono 40 anni dalla semifinale tra Polonia e Italia del Mondiale 1982. Zibì Boniek, il bello di notte, era in tribuna quel pomeriggio. Occhiali da sole, sguardo non proprio sereno. «Se si giocasse oggi, potrei esserci. Ogni tanto ci ripenso e provo dispiacere».
Un giallo di troppo, no?
«I primo nella gara d’esordio, per essere uscito dalla barriera, poi quello con la Russia, a un quarto d’ora dalla fine. Alla fine ho chiuso con quattro gol e una medaglia di bronzo».
Con lei in campo sarebbe andata diversamente?
«E chi lo sa. Magari l’Italia avrebbe vinto comunque, e tra l’altro ha meritato. Ma era come se agli azzurri avessero tolto Rossi».
Dopo Italia-Polonia del girone, ha mai pensato sarebbero andate in semifinale?
«Certo. Eravamo le migliori squadre del girone».
L’Italia non andava bene.
«Contava passare la prima. Il resto sono frasi fatte e luoghi comuni. Quella era una squadra con valori: Rossi, Tardelli, Scirea, Conti e tanti altri».
E quello era il Mondiale di Boniek, Platini, Maradona. Che bellezza.
«Era un altro calcio, un’altra atmosfera. Ora non è più così».
In che senso?
«Erano campioni veri. Oggi un buon giocatore lo trasformi in campione in qualche anno».
Dal talento naturale alla costruzione del talento, giusto?
«Più o meno è così».
Esempi?
«Non è il caso di fare polemiche. All’epoca si poteva andare in giro dopo le partite anche per prendere una birra, c’era più contatto con la gente. Oggi è tutto frenetico, non ti risponde al telefono nemmeno il procuratore di un giocatore».
Perché la Nazionale del 1982 è entrata nel mito, quella del 2006 no?
«Ci vorrebbe un sociologo per rispondere. Oggi è tutto più artificiale. Prima c’era meno ricchezza e più spontaneità, era uno sport più umano. C’era più tempo per goderselo. La formazione dell’Italia ancora la ricordi in un attimo. Oggi le rose sono lunghissime, è tutto più difficile da raggiungere, da comprendere. Sono sicuro se le chiedessi il suo film preferito me ne direbbe uno di tanti anni fa. Lo stesso vale per il calcio. Meglio prima».
In campo è cambiato tutto.
«Sorrido quando si paragona un campione di oggi a Maradona. Diego giocava con un uomo addosso per novanta minuti, i difensori erano tosti. Noi avevamo fisici da atleti dei 1500, eravamo più resistenti. Oggi sono tutti centometristi, si gioca in spazi più stretti».
Le dispiace non essersi goduto un Bruno Conti all’altezza del Mondiale 82?
«Quando ero a Roma, Bruno era ancora un campione vero».
Come Rossi dopo il 1982?
«Paolo ha subito le fragilità fisiche. Nella Juve era decisivo».
A proposito di Juve, che anni sono stati i suoi?
«Belli, vincenti. Era una squadra eccezionale, il blocco Italia più Platini e il sottoscritto».
Bella coppia, no?
«Stranieri in mezzo a un gruppo di italiani e quindi legammo spontaneamente. Oggi il numero degli stranieri dell’epoca è ricoperto da italiani...».
Ma è vero che poi ha ripudiato i suoi anni juventini?
«Falso. Mai parlato male della Juve, anche a loro chiedo: portatemi un articolo o una registrazione in cui lo faccio».
E allora che cosa è successo?
«Ho fatto delle critiche, anzi, constatazioni: ho detto che non mi piaceva che la Juve usasse i propri dirigenti per vincere le partite. E lo confermo. Ma Andrea Agnelli si è fatto influenzare da certi balordi, mi hanno negato la stella».
E la Roma?
«Sono tifoso. Vivo qui, l’ho scelta come città».
Tra 50 anni, la Polonia ricorderà come mito Boniek o Lewandowski?
«Non ho invidie per nessuno. Io ho fatto tre mondiali, ho vinto tutto. Lewandowski pure».
Zalewski doveva accettare la Nazionale italiana?
«E perché mai se è polacco? Anche io ho il passaporto italiano. Mi sento polacco. Non sono contrario agli oriundi ma la Nazionale deve essere dei calciatori che si sentono di quel paese, al di là dei passaporti».
Come si rifonda il calcio italiano?
«Il nostro resta il campionato più competitivo. Chi fa bene qui va bene ovunque. La differenza la fanno i soldi: chi più ne ha, vince. Si riparte da quello: i soldi».