Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 07 Giovedì calendario

Letteratura e nicotina

Gli elogi di Mario Soldati sono stati forse gli ultimi. «Se siamo uomini di buona volontà», sosteneva, «il Toscano non ci tradisce mai». Oltre a lasciarci un libretto delizioso, Elogio del sigaro toscano, ne scrisse su La Stampa nel ’78, ricordando ad esempio che quel fil di fumo (non tutti saranno d’accordo, va da sé) si gode «non come una droga, non per l’effetto che produce, ma per il gusto che dà». Si potrebbe andare indietro per un bel po’, tra il Montale di Xenia che evoca il «volubile fumo» dei suoi Brissago, il Thomas Mann della Montagna sacra e naturalmente Italo Svevo, con la sua ultima sigaretta della Coscienza di Zeno: per tuffarsi poi nell’Ottocento, se pure con qualche cautela, visto che Balzac proprio negli anni in cui tramontava il tabacco da fiuto era critico nei confronti di sigari e sigarette, sosteneva che toglievano all’uomo la forza virile.
Il fumo non sembra dilagare nella grande letteratura. È una presenza significativa, ma forse quantitativamente secondaria; e in ogni caso è in via di estinzione. L’autoepitaffio modellato su D’Annunzio da un Giovanni Arpino malato senza speranza, «ho quel che ho fumato», ha il sapore di una stoica ironia, conclusiva, si direbbe, cui non è possibile aggiungere altro.
Sappiano che fa male, anzi in qualche caso malissimo; ma era un elemento narrativo di non secondaria importanza. Ora sembra un tabù: non però per un giovane e talentuoso autore britannico, Stuart Evers, in libreria con Dieci storie sul fumo (Bollati-Boringhieri), che vivaddio non prendono posizione e non lanciano anatemi, non sono virtuose né tantomeno igieniste.
Sono racconti che la critica anglosassone ha apprezzato (uscirono nel 2011, opera prima), accostandoli a quelli di Alice Munro e naturalmente Carver; essenziali, a tratti disperati, a tratti ironici o persino comici, basati sul tagliare, sul suggerire, sul non dire mai se non ciò che è indispensabile, e lasciare il resto al lettore. E i protagonisti fumano tantissimo o lo facevano in precedenza. C’è ad esempio un tal Marty che dopo molto tempo riceve una telefonata dalla donna che amava quando entrambi avevano vent’anni, e conducevano una vita «triste e ritirata», anche se eroticissima. Viene convocato in un anonimo albergo, ci va, rifanno l’amore come una volta, ma alla fine qualcosa non funziona: perché lui non ha più il suo particolare odore di fumo, visto che ha smesso da otto anni. E lei se ne va seduta stante. Oltrettutto sta per sposarsi, con quello che il protagonista ora immagina «un energumeno; la testa rasata e un’aria da buttafuori col suo frac a noleggio». Sono racconti sull’impossibilità di ciò che un altro personaggio femminile definisce il «paradiso», ovvero «la ripetizione costante dell’attimo più felice della propria vita». Sul tempo, sulla sua inviolabilità.
Il fumo è il seducente strumento narrativo. Se qualcuno fuma sta per succedere o è successo qualcosa di rilevante. Può segnare umoristicamente la fine di un amore complicato o quella di un’illusione, come nel primo, straziante racconto del libro. È la sintassi delle vite quotidiane, degli amori, dei tradimenti. Vale la pena di ricordare un altro personaggio straordinario, Flagstaff, (inevitabile pensare al Falstaff shakespeariano) che, vent’anni prima di quando lo incontriamo in uno strano club di Las Vegas forse non del tutto reale, era una star per la sua capacità di disegnare nell’aria, espirando la sigaretta, ogni tipo di forma geometrica. E qui davvero il tabacco sembra farsi metafora di un mondo evanescente. Forse, a parte Soldati, vitalista e ottimista sempre, è questo il suo ultimo destino letterario?
L’idea è antica, appartiene già a Flaubert, che nell’Educazione sentimentale gli dedica uno dei momenti narrativamente cruciali, quando Frédéric, il protagonista, ha infine la possibilità, dopo anni e anni, di fare l’amore con la donna che ha sempre corteggiato senza ottenere quasi nulla. Ora, invecchiata, gli fa capire che potrebbe – anzi, vorrebbe – cedergli. Lui capisce, anzi «sospetta» «che la signora sia venuta per offrirsi», e le cade ai piedi in preda a una «cupidigia violenta». Ma all’improvviso rinuncia, le volge le spalle. «Si mise a fare – scrive Flaubert – una sigaretta». Madame Arnoux non può che stare al gioco, con una sospirosa esclamazione: «Quanta delicatezza».