la Repubblica, 7 luglio 2022
Ritratto di Boris Johnson
C’è l’imbarazzo della scelta nel cercare una metafora shakespeariana per Boris Johnson: moderno Re Lear, come nella tragedia del monarca incapace di distinguere fra ciò che è giusto e ingiusto, manipolato secondo alcuni dalla propria lady Macbeth, la (terza e attuale) moglie assetata di potere che elimina uno a uno i consiglieri per diventare l’involontaria complice di una fine ingloriosa, oppure incorreggibile giullare, «un clown», come lo definì il predecessore David Cameron, la cui ascesa e caduta somiglia a una commedia degli errori, per dirla con un altro titolo del Bardo. Il paradosso della sua carriera è che l’indubbia abilità a vincere campagne elettorali – per la precisione non ne ha mai persa una – sia accoppiata con la scarsissima capacità di governare, quest’ultima frutto di una disinvoltura nei confronti della verità eccessiva perfino per un politico. Disattento ai dettagli o mentitore seriale, l’uomo che aveva per modello Winston Churchill rischia di venire ricordato come uno dei premier peggiori del Regno Unito.
Le basi in teoria erano buone: Eton, la scuola dei re, e l’università di Oxford, dove si laurea in Classics, la storia della Grecia e della Roma antica. Diventa presidente della Oxford Union, l’associazione dei famosi dibattiti, ma pure del Bullingdon Club, ritrovo dei rampolli posh che si ubriacano in frac e si sentono intitolati a dominare il mondo. Poi sceglie come professione il giornalismo, distinguendosi per stile brillante ed esagerazioni fantasiose, come quella secondo cui l’Unione Europea ha una regola addirittura per decidere la forma delle banane. Corrispondente da Bruxelles del Telegraph, direttore dello Spectator, mitico settimanale conservatore, si sente predestinato al potere: deputato dal 2001, ministro nel governo ombra dell’opposizione, viene costretto a dimettersi per una bugia sulla relazione extraconiugale con una delle sue redattrici. È un campanellod’allarme. Dovrebbe farlo scomparire. Invece Boris torna in pista candidandosi a sindaco di Londra, dove spodesta Ken Livingstone e facendosi eleggere a sorpresa primo cittadino di una città da sempre progressista. Cosmopolita e carismatico, sembra il simbolo di una capitale che ospita le Olimpiadi e lancia i primi autobus ecologici.
Potrebbe accontentarsi di venire rieletto sindaco, ma l’ambizione lo spinge più in alto: nella Brexit vede il veicolo per distruggere due rivali dei Tories, prima Cameron, sconfitto nel referendum sulla Ue del 2016, quindi Theresa May che ne prende il posto e cerca di negoziare un accordo con l’Europa. Boris racconta favole agli elettori: sui 350 milioni di sterline alla settimana che, tolti all’Europa unita, potranno andare alla sanità pubblica nazionale; sulla possibilità di un’intesa con il continente che porti alla Gran Bretagna solo diritti senza doveri, «la botte piena e la moglie ubriaca». È l’inventore del populismo: la sua vittoria precede quella di Trump in America, ispira altri leader in mezzo mondo, da Modi in India a Bolsonaro in Brasile. Entrato a Downing Street nell’estate 2019, consolida la posizione a dicembre portando il Paese alle urne, dove ottiene la più grande vittoria elettorale per la destra britannica in più di trent’anni, praticamente dall’era di Margaret Thatcher, e conquista terreno nella Red Wall, la muraglia rossa della classe operaia laburista, il nord-est dell’Inghilterra colpito dalla de-industrializzazione.
Anziché amministrare con saggezza questo patrimonio di consensi, lo sperpera, fra diktat alla Ue, violazioni delle norme sulla pandemia da lui stesso imposte al resto della nazione, balle clamorose, come l’ultima, essersi “dimenticato” che il deputato nominato vicecapo del gruppo conservatore ai Comuni era un noto molestatore sessuale. Troppe bugie. Troppa arroganza. Alla fine, è rimasto solo. Per tornare a Shakespeare, il suo epitaffio potrebbe essere il celebre discorso di Marco Antonio dal Giulio Cesare, che avrà certamente studiato a Oxford: «Il male che l’uomo fa gli sopravvive». Di Boris Johnson resteranno la Brexit e i suoi danni.