Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 06 Mercoledì calendario

Riccardo Cocciante sul palco dopo 10 anni

Il brano su cui non avrebbe scommesso?
«Margherita. Perché è arrivata nel momento in cui la canzone politica era preponderante, il contrasto con la moda corrente era totale e io mi sentivo disarmato. All’epoca partecipavano tutti ai Festival dell’Unità, dove io non andavo; il discorso politico era potente, invadeva l’Italia. Io stesso ero perplesso sull’uscita di Margherita, ma poi si è inserita violentemente in uno spazio che evidentemente c’era». 
Era l’epoca dei fascisti di qua e i comunisti di là, la canzone d’impegno non faceva per lei? 
«Non ho mai voluto scrivere di politica per due ragioni. Primo perché la reputo passeggera, nei tempi e nei modi; dopo quattro anni tutto invecchia, la si pensa diversamente. E poi perché credo che la politica per noi artisti debba rimanere qualcosa che osserviamo, ma non diventare la bandiera di un’idea, di un partito, anche se tu le tue opinioni le hai. Ho sempre cercato di non essere dentro mode e pensieri, mi piace stare da parte, marginale o fuori, mai in una moda. Piuttosto cerco io diventare io la mia moda, il mio pianeta». 
Chi era «Margherita»? 
«Le mie canzoni sono al 99% allegorie, raccontano pensieri e stati d’animo. L’unica canzone diretta è quella dedicata a mio figlio David, Vivi la tua vita». 
L’ultimo album è del 2005, negli ultimi dieci anni ha preferito dedicarsi al musical Notre-Dame de Paris, Riccardo Cocciante ora ha deciso di tornare a esibirsi dal vivo con una serie di concerti in giro per l’Italia (il via il 19 luglio da Firenze, chiusura il 6 agosto a Ostuni). 
Come mai dieci anni di silenzio? 
«Io ho due carriere, in questi anni quella di cantautore si è fermata per dare spazio a Notre-Dame che è nato in Francia e poi è stato tradotto in 8 lingue e si è diffuso nel mondo, in Paesi anche improbabili come la Corea, la Cina... Però è venuto il momento di ricreare un contatto con il pubblico in modo particolare, non con uno di quei mega-concerti che si fanno oggi, ma con un’esibizione ravvicinata, umana». 
I mega-palchi non le piacciono? 
«Ci vogliono anche i megaconcerti ma forse oggi si esagera... Penso ci sia bisogno di ritrovare il lato umano sul palcoscenico, di non essere attorniati da sequenze, programmazioni, videoistallazioni. Piuttosto una bella orchestra come quella diretta da Leonardo De Amicis che mi accompagna in queste tappe. Il contatto con il pubblico diventa intimo, le piccole arene storiche dove ci esibiremo hanno un’essenza, dentro c’è una vibrazione che riverbera sul pubblico». 
Padre italiano, madre francese, lei è cresciuto in Vietnam fino a 11 anni. 
«Quando sono arrivato a Roma ero spaesato, non conoscevo la lingua e il clima era diverso da Saigon: i tropici sono un’esplosione di odori, di colori e Roma mi sembrava una città grigia. Volevo conoscere la cultura musicale italiana e la tv mi ha aiutato molto: guardavo tutte le trasmissioni musicali, anche le più periferiche; così ho imparato che all’epoca l’italiano era più melodico mentre il francese più letterario. Io sono sempre in bilico tra queste due culture: sono il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi. Il mio modo di cantare è impressionista; l’estetica serve ma non è prioritaria». 
Una sola presenza a Sanremo nel 1991, la vittoria con «Se stiamo insieme». E poi? 
«Non amo ripetere due volte la stessa esperienza. Molti l’hanno presa male, ma non era una scelta “contro” Sanremo. Anche il giudice di The Voice l’ho fatto una sola volta. Perché per il nostro mestiere entrare in un ingranaggio rappresenta la morte della creatività. Diventi parte di un meccanismo dove vuoi piacere più agli altri che a te, invece penso che la composizione sia un fatto di egoismo: prima di tutto devi tu stesso provare amore per quello che fai». 
La musica oggi in che direzione va? 
«C’è troppo calcolo, per molti è qualcosa di meccanico e robottistico. Io invece ho voglia di genuinità. Il problema è che oggi si arriva troppo presto al successo, la gavetta è importantissima, perché stai male, soffri, ma ti arricchisce e non ti senti dio se diventi popolare. I successi più belli sono sempre quelli improbabili, quelli non calcolati. Nella mia carriera ne ho avuto diverse prove, non solo con Margherita. Bella senz’anima all’inizio ha stentato, poi il pubblico ha deciso che poteva essere un successo. Il tempo è un giudice pazzesco, cancella le cose opportunistiche e fa rimanere quelle vere, autentiche».