Corriere della Sera, 5 luglio 2022
La schiavitù dura a morire
«Un grido, un grido acuto, di una desolazione senza fine, squarcia lentamente l’aria opaca». L’urlo è quello del trafficante d’avorio Kurtz, che vive isolato alla testa di una comunità di nativi in un luogo remoto nella foresta africana raggiungibile solo per via fluviale. Ma quello che viene fuori dalle pagine di Cuore di tenebra (Feltrinelli) di Joseph Conrad, è anche il grido di una particolare condizione di vita. E di lavoro. Nella sua vita avventurosa – come già scriveva Jocelyn Baines in Joseph Conrad. Una biografica critica (Mursia) – l’autore di Cuore di tenebra incontrò molti lavoratori che ancora nel tardo Ottocento vivevano in condizioni di servitù e dipendenza estrema: i servi dell’Impero russo, i salariati e i marinai dell’Impero francese o di quello britannico, gli schiavi e i migranti nell’Oceano indiano. E sempre si può dire che abbia sentito quello stesso identico grido già ascoltato nella foresta profonda del Congo.
Conrad pubblicò Heart of Darkness in tre puntate, nel 1899, sulla rivista scozzese «Blackwood’s Magazin». Poi, in volume, nel 1902. Negli anni Settanta lo scrittore nigeriano Albert Chinualumogu Achebe definì quel libro «razzista» perché, a suo dire, offriva una rappresentazione dell’Africa come «un campo di battaglia metafisico privo di qualsiasi umanità, in cui l’europeo errante entra a proprio rischio e pericolo». In realtà Conrad – scrive Alessandro Stanziani nello straordinario Le metamorfosi del lavoro coatto. Una storia globale XVIII-XIX secolo edito dal Mulino – pur non rinunciando all’idea che l’Europa si fosse data una «missione civilizzatrice», in Cuore di tenebra ci stava raccontando qualcosa di diverso. Di più profondo. Conrad diede conto in modo inequivocabile del proprio sconcerto al cospetto della «brutalità del mondo coloniale» e della ben visibile sopravvivenza, nonostante fosse stato formalmente abolito, di forme di schiavismo. Forme di schiavismo che produssero atrocità di cui sarebbe rimasta ampia traccia negli archivi (pur se i documenti sul Congo, sottolinea Stanziani, furono «spesso e volentieri ingannevoli presentando i coloni sotto una luce favorevole»). L’aspetto più stupefacente, osserva ancora Stanziani, «non è tanto il silenzio delle autorità coloniali dell’epoca», le quali tentarono «disperatamente e sistematicamente di mettere a tacere ogni denuncia dei crimini commessi». La cosa più incredibile è «che tale silenzio sia stato rotto soltanto molto di recente». A dire il vero, le prime documentate e implacabili denunce furono quelle del 1905 in Francia ad opera dell’esploratore italiano naturalizzato francese Pierre Savorgnan de Brazza. Brazza, però, morì quello stesso anno e successivamente (1906) del caso si occupò – con qualche eccessiva cautela – la commissione guidata da Jean-Louis de Lanessan. Il pur annacquato rapporto Lanessan fu poi stampato in sole dieci copie che incredibilmente rimasero nascoste negli archivi per decisione dell’allora ministro delle Colonie Raphaël Milliès-Lacroix. E sepolte sono rimaste fino alla fine degli anni Ottanta allorché le ha dissotterrate ed esaustivamente analizzate la studiosa Elisabeth Rabut. Infine, nel 2014 la versione integrale del rapporto Brazza è stata pubblicata dalla casa editrice indipendente «Passager clandestin».
Successivamente è stato dato alle stampe un esaustivo libro dello storico statunitense Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato (Garzanti). Adam Hochschild ha ricostruito la storia del Congo, «scoperto» dall’esploratore Henry Morton Stanley e «donato» nel 1885 al re Leopoldo II del Belgio che lo amministrò come un’immensa tenuta, un possedimento personale. All’insegna di un sistema di lavoro paraschiavistico che gli consentiva una scandalosa appropriazione dell’avorio e del caucciù. Qualcosa di assai diverso da quel che avveniva nelle coeve colonie. Se ne accorse il pastore battista George Washington Williams che ne scrisse al presidente degli Stati Uniti Benjamin Harrison per denunciare appunto gli orrori conradiani. Dopo di lui fu la volta di Edmund Morel che tornò su quelle denunce. Poi l’afroamericano William Sheppard, il console irlandese Roger Casement, gli scrittori Arthur Conan Doyle e Mark Twain. Finché nel 1908 Leopoldo II fu costretto a cedere quella sua colonia personale al proprio Paese. Dopo aver ordinato la distruzione dei documenti che provavano stermini e saccheggio. Riemersi soltanto adesso. Incredibile.
Perché un così prolungato silenzio? Perché queste omissioni storiografiche? Non per occultare i crimini di una società schiavista o post schiavista (peraltro denunciati nei termini di cui si è detto). O non solo per questo. Ma per il fatto che da un’analisi più approfondita di quel che accadde in Congo si può comprendere – ed è questo il principale merito dello studio di Stanziani – come, in molte parti del mondo, lavoro libero e lavoro coatto (nei fatti schiavistico) abbiano continuato a convivere. A lungo. Per decenni. Fino ad oggi da qualche parte del pianeta. In una sostanziale indifferenza alla formale abolizione della schiavitù.
Questa indifferenza ha avuto un’origine ideologica. Adam Smith credeva che la schiavitù non fosse «produttiva» e che, di conseguenza, «la razionalità economica e il desiderio del profitto ne avrebbero avuto ragione». Una tesi, che ancor oggi è accettata da molti studiosi ma che, secondo Stanziani, è, ad ogni evidenza, «empiricamente falsa». La schiavitù negli Stati Uniti, scrive Stanziani, è stata abolita per ragioni politiche e morali, non certo economiche, visto che fu «redditizia fino alla fine». Circa un secolo più tardi Max Weber, come d’altronde Marx prima e tanti altri dopo di lui, ha ripreso il teorema di Smith: il capitalismo sarebbe «incompatibile con il lavoro forzato». Dopo le teorizzazioni di Smith, Marx, Weber, i paradigmi convenzionali della storia coloniale hanno occultato i legami tra capitalismo e lavoro forzato. Gli specialisti dei movimenti sindacali in Francia e nel Regno Unito non si sono mai interessati alla schiavitù. A loro volta gli storici della schiavitù – come, ad esempio, Olivier Pétré-Grenouilleau in La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino) o Karin Pallaver in Lungo le piste d’Africa. Commerci locali e strategie imperiali in Tanzania (Carocci) – non hanno seguito granché i dibattiti «sull’emergere delle convenzioni collettive in Francia o sui salari degli apprendisti in Inghilterra». E anche in libri come Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi (Laterza) di Gabriele Turi o La schiavitù in età moderna (Laterza) di Patrizia Delpiano, secondo Stanziani, «l’accento posto sulle rotture abolizioniste tende a ignorare la persistenza», dopo queste cesure pur epocali, di «forme celate della schiavitù e del servaggio». Quanto poi a quelle che Robert Castel ha definito Le metamorfosi della questione sociale (Sellino) si sarebbero prodotte, secondo molti studiosi, «come se le schiavitù e le colonie non esistessero». Rilievo esteso da Stanziani anche a Chiara Giorgi e Ilaria Pavan per la loro Storia dello Stato sociale in Italia (il Mulino).
Queste trascuratezze si devono anche a un altro motivo. Fino agli anni Ottanta del XX secolo, gli storici, soprattutto se di estrazione marxista, sottolineavano l’importanza della rivoluzione del 1848 che, secondo loro, segnava «la fine del compromesso tra aristocrazia fondiaria di Antico Regime e mondo postrivoluzionario». Fine che determinò l’avvento del capitalismo liberal borghese. Fu poi Arno Mayer a spostare la data spartiacque alla Prima guerra mondiale. Altri storici, come Christopher Bayly e Jürgen Osterhammel, hanno contribuito a «relativizzare» l’importanza (sotto tale profilo) del 1848. Ma Stanziani aggiunge una variabile supplementare, assente dalla storiografia di cui si è detto: la relazione stretta che nel 1848 lega le mutazioni in Francia e in Europa e l’abolizione della schiavitù nei mondi coloniali.
Ne viene fuori un quadro ben più articolato in cui si nota la persistenza del potere delle aristocrazie fondiarie, la nascita dei contadini operai, il ruolo delle piccole unità di produzione, ma anche, nelle colonie, l’esistenza residua di «forme larvate di schiavitù». Quest’ultimo elemento «condiziona a sua volta l’evoluzione delle istituzioni del lavoro nella stessa Europa». La schiavitù – talvolta «pensata e praticata in opposizione alle nuove configurazioni del lavoro», in qualche caso «associata a queste ultime» – costituisce anche dopo la sua abolizione «un punto di riferimento inevitabile».
Ne emerge che – a dispetto di una certa storiografia anglosassone (ma non solo) la quale pone l’accento sui «progressi della libertà del lavoro che incoraggerebbero a loro volta l’abolizione della schiavitù» – nel Regno Unito, ancor più che in Francia, «il lavoro libero è sottomesso a forme significative di repressione e coercizione» (al punto da «essere oggetto di procedimenti penali»). Con la differenza che nel Regno Unito «la coercizione passa attraverso il contratto e le leggi sui poveri», mentre in Francia «si esprime per il tramite del libretto operaio e della lotta contro il vagabondaggio».
Nell’Oceano Indiano l’abolizione della tratta prima e della schiavitù poi (1832-39 per quel che riguarda Mauritius, 1848 per la Riunione) è seguita da un lungo periodo nel corso del quale dominano i contratti di dipendenza servile. I lavoratori immigrati vedono i loro diritti calpestati mentre le condizioni reali sono spesso simili a quelle dell’epoca precedente. Anzi peggio. A Mauritius, malgrado gli sforzi del movimento abolizionista che cerca di denunciare forme di «schiavitù occulta» successive agli anni Trenta, le condizioni di lavoro e di vita degli immigrati restano estremamente dure. Spietate. Tra il 1860 e il 1870 vengono sporte dai proprietari 70 mila denunce contro altrettanti lavoratori. Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di denunce per diserzione o assenteismo. Nel corso di questo decennio vengono giudicati e quasi sempre condannati ben 14 mila lavoratori. E se una parte delle 70 mila denunce non ha seguito, è perché i proprietari preferiscono partire alla ricerca di nuovi lavoratori piuttosto che insistere in procedure giudiziarie contro i fuggiaschi costose e d’esito incerto.
Conrad muore nel 1924. Quello stesso anno – nota Stanziani – la Società delle nazioni costituisce una Commissione per lottare contro la schiavitù. Tale Commissione però si limita a constatare la persistente diffusione in tutto il mondo del «lavoro forzato» e trova motivi di compiacimento per la scomparsa della «vera schiavitù». Proprio in quel 1924 (per la precisione il 10 marzo) nel mezzo dell’Oceano Indiano un contingente di lavoratori originari del Madagascar sbarca alla Riunione a bordo del vapore «Le Bourbonnais». Si tratta del terzo sbarco nel giro di poche settimane. Si contano a bordo 1016 uomini, 167 donne e 8 bambini. La più parte, bimbi compresi, saranno destinati alla costruzione della strada per Cilaos. Spaccheranno pietre e scaveranno fossati per una ciotola di riso.
La lettura di Stanziani è assai diversa da quella di chi – da Adam Smith ai whigs britannici passando per Tocqueville – ha fissato un nesso indissolubile tra capitalismo e democrazia. Ma è distante anche da quella di Marx e di Weber laddove entrambi associavano capitalismo e lavoro salariato. Tali visioni, sono state nient’altro che un «atto di fede» dal momento che in Russia, come in Europa, negli Stati Uniti e ovviamente in Africa, «capitalismo e mercati si sono perfettamente sviluppati grazie al lavoro forzato». Stanziani dimostra che la storia del lavoro libero non è comprensibile senza quella del lavoro forzato. E viceversa. D’altra parte, non si tratta di storie parallele o in successione una all’altra. Non è vero che il lavoro forzato sia stato soltanto un affare dell’Europa di secoli addietro o dei mondi non europei. Così come non è vero che caratteristico dell’Europa borghese, democratica e industrializzata sia stato un lavoro interamente libero. Al contrario, lavoro libero e lavoro forzato si sono sovrapposti «uno all’altro». La loro è una storia intrecciata. Un’unica storia.