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 2022  luglio 05 Martedì calendario

Tullio Pericoli tra Kafka e Giacometti

Sono ormai passati tanti anni dalla prima volta in cui l’ho incontrato e da allora non l’ho mai perso di vista. Ho continuato ad averlo sempre accanto, ora cercando di evitarlo, ora di imitarlo.
Sto parlando di quell’essere «pallido» e dalle «costole sporgenti» protagonista del racconto di Kafka, scritto negli ultimi mesi di vita e a lui particolarmente caro, intitolato Un digiunatore.
Spesso ho anche provato a dare una forma e un aspetto concreto a quell’uomo pallido, a renderlo visibile, a farne una figura da disegnare, da ritrarre. Ma si sa bene com’è Kafka, e come lui i suoi personaggi: sfuggenti. Non sanno o non vogliono rivelarsi. Talvolta ci sembra di essere riusciti a definirli nella loro fisionomia o nel loro carattere: finalmente li vediamo, li capiamo; poi, qualche riga più sotto, compare una parola, spunta un dettaglio e bisogna ricominciare da capo.
Chi è dunque questo digiunatore, capace di non mangiare in attesa che qualcosa gli piaccia davvero? Un esibizionista? Un astuto? Un indifeso? Un artista del digiuno?
Le storie di Kafka, mi sono detto e ridetto, non sono riducibili ad altre forme d’arte, a lingue che non siano la sua, o a parole che non siano le sue. Di questo sono stato sempre convinto. Conosco i tentativi che hanno fatto in molti e in modi differenti, ma non ne ricordo uno veramente riuscito.
Tuttavia, leggendo e testardamente rileggendo il racconto, a un tratto mi è parso di vedere alcune frasi staccarsi dalla pagina. Come se si sollevassero e si ponessero un gradino sopra le altre. Erano queste: «… mostrato … pallido, in maglietta nera, le costole sporgenti … stendeva il braccio attraverso le sbarre perché palpassero la sua magrezza».
Dentro le frasi, poi, alcune parole si sono ingrandite: «MOSTRATO» - «COSTOLE» - «BRACCIO» - «SBARRE». E le parole stesse hanno cominciato a disegnare, a tracciare linee. Le linee hanno sollecitato altre linee, le quali, quasi fossero già chissà dove in attesa, subito si sono mosse e risvegliate. E sui fogli in cui provavo a fare qualche schizzo, di colpo ha preso corpo la visione di una forma, di un’ombra che ho riconosciuto all’istante: Giacometti.
Non solo le sue sculture, ma la sua persona, il suo aspetto fisico. D’altra parte, è possibile separare l’aspetto fisico di Giacometti dai suoi personaggi? Quegli esseri appuntiti non sono le sue controfigure?
Perché non ci ho pensato prima?
Giacometti, soprattutto negli ultimi anni – ora posso dire di averne le prove –, non ha fatto che scolpire «digiunatori», figure compresse dal peso dell’aria che le avvolge e, allo stesso tempo, come se risucchiassero verso il proprio interno la materia di cui sono fatte. Personaggi che sembrano alimentarsi di un cibo che non ha niente a che fare con il nostro e, bloccati a terra in un’immobilità forzata anche nell’atto di camminare, compaiono spesso costretti fra le sbarre di una gabbia.
A questo punto è riapparso Kafka. Non lo scrittore, ma il disegnatore. L’autore di tante figure nere, erette, magre, isolate. Giacomettiane.
Il mio racconto per disegni è cominciato così.
Ho avuto bisogno di sentire sulla mia spalla destra la mano protettiva di un artista, Giacometti appunto, per prendere coraggio e provare a dare una forma mia al racconto di Kafka e allo stesso tempo permettere ai due grandi di incontrarsi. Quasi commentarsi reciprocamente.
Questo libretto prosegue l’esperienza fatta anni fa con La casa ideale di Robert Louis Stevenson, trasformare cioè un racconto in disegni e proporre questa versione con il testo a fronte. La mia, naturalmente, più che una traduzione è una riscrittura, tutt’altro che fedele, che non cerca di restituire interamente il senso del racconto né di crearne un equivalente.
Ridurre un testo in disegni, stimolare l’immaginazione, quasi strofinarla, scaldarla, sino a che affiorino delle figure – come credo sia successo a me –, richiede alcuni passaggi non facili.
Partiamo dagli occhi. Quando leggiamo, il nostro cono visivo continua a spostarsi da sinistra verso destra, orizzontalmente, seguendo le righe scritte. Un movimento che poco a poco diventa automatico. Ma se vogliamo che le parole acquistino forma, dobbiamo innanzitutto trasformare quel movimento – che oltre agli occhi coinvolge, non so spiegare come, anche la mente – da orizzontale a onnidirezionale: la base del cono deve allargarsi enormemente, perdere la sua forma circolare, debordare e aprirsi al sopra, al sotto, a destra e a sinistra.
Poi ci sono le righe della scrittura che sono di frasi, le frasi di parole, le parole delle lettere dell’alfabeto: simboli. Perché i simboli si traducano in figure occorre spingersi a ispezionare gli angoli più segreti della memoria, che sono nascosti non solo negli spazi della mente ma anche in quelli più ampi del corpo, e sollecitare quanto vi è di pronto a diventare «figurabile».
Sicuramente, tra gli affioramenti, per prime emergeranno le immagini che più di altre hanno avuto a che fare con le parole: immagini che conoscono i problemi e le strette parentele che da sempre esistono tra loro e le parole, che ne sono maggiormente imbevute perché nate proprio da altre parole, lette o sentite chissà quando. Per questo, immagini più pronte a rianimarsi. Per simpatia.
Proprio queste – credo – bisogna andare a cercare.