Il Messaggero, 4 luglio 2022
In Giappone la partenità è una questione di linguaggio
La lingua giapponese, come tutte quelle che prevedono l’uso di caratteri ideografici, può essere molto complicata. Pensate: mentre i nostri bambini a scuola debbono imparare appena 21 lettere (25, se aggiungiamo quelle straniere che comunque sono divenute di uso comune, come la k, la j, la x, la y e la w) quelli giapponesi debbono imparare ben 2.130 caratteri, chiamati kanji (segni cinesi, perché è in Cina che sono nati). Proprio così: 1.026 caratteri entro la fine delle elementari, altri 1.110 entro le superiori. E parliamo solo dei cosiddetti joyo kanji, i caratteri di uso comune, quelli che tutti i cittadini debbono conoscere e con i quali vengono scritti i giornali e redatti i documenti ufficiali. Ma i caratteri cinesi sono oltre 100 mila, e oltre 20 mila vengono regolarmente utilizzati nei testi specialistici. In Giappone la situazione è ancora più complicata: ogni carattere ha infatti almeno due differenti letture (alcuni ne hanno una decina) e molti, a seconda dei caratteri che li seguono o li precedono, possono assumere diversi significati. Una tragedia, insomma. Premessa necessaria per introdurre il racconto di oggi, dedicato al congedo di maternità/paternità e al possibile motivo per il quale, in Giappone, sia così poco utilizzato.Nonostante le leggi che lo regolano siano tra le più generose del pianeta (sino ad un anno per entrambi i genitori, qui https://www.oecd.org/els/soc/PF2_1_Parental_leave_systems.pdf l’elenco completo, per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento) in Giappone il congedo di maternità per non parlare di quello di paternità – viene utilizzato pochissimo. Le donne preferiscono licenziarsi, gli uomini, che pur cominciano a scoprirlo, si vergognano. Anche se in aumento, i dati ufficiali parlano chiaro: nel 2021 meno del 20% dei papà giapponesi ha approfittato di questo istituto, e quei pochi che l’hanno fatto hanno subito pesanti conseguenze sulla loro carriera, una volta tornati al lavoro. Nei mesi scorsi a Kobe si sono tenute le prime udienze di una causa intentata da un manager della famosa Asics, l’azienda leader nel settore della calzature sportive, che dopo aver usufruito interamente del congedo (un anno) era stato punito con un trasferimento umiliante e stipendio dimezzato. Nemmeno il fatto che un paio di anni fa il giovane ministro per l’Ambiente Shijnjiro Koizumi, figlio dell’ex premier Junichiro Koizumi avesse annunciato pubblicamente di volersi avvalere di una sorta di part time per accudire il figlio appena nato è riuscito a cambiare la mentalità tutt’ora dominante: sono le donne che debbono occuparsi dei figli, e per farlo, è bene che lascino, quantomeno temporaneamente il mercato del lavoro. Quanto agli uomini, da loro ci si aspetta ancora, come ai tempi dei samurai, fedeltà, dedizione assoluta e spirito di sacrificio. Inutile dire che in Giappone sono molti di più i casi di karoshi la morte per troppo lavoro che quelli di papà che usufruiscono del congedo di paternità.A dare una scossa al sistema però ci prova ora la combattiva governatrice di Tokyo, Yuriko Koike. Abbandonata ogni speranza di diventare la prima donna premier del Giappone (era partita bene, proprio con l’ex premier Koizumi, che l’aveva nominata ministro della Difesa) la signora Koike non perde occasione per far parlare di sé. Ed in questo caso diciamo che merita tutto il plauso possibile. Nei giorni scorsi ha annunciato, nel corso di una affollatissima conferenza stampa, di aver scoperto il motivo per il quale la società giapponese non vuole modernizzarsi. Colpa della lingua, dei caratteri ideografici, e dei concetti che esprimono, spesso fuorvianti. Prendiamo il caso in oggetto, il congedo di maternità/paternità. In giapponese si dice ikuji kyugyo, espressione che più o meno significa assentarsi dal lavoro per accudire i figli ed è composta da 4 caratteri, tra i quali il più importante è kyu, che a sua volta è costituito da due segni: quello di uomo e quello di albero. E un uomo che si riposa all’ombra di un albero esprime il concetto di riposo, che per i giapponesi è molto vicino a quello di ozio, dunque con una nuance negativa. Si ritrova in centinaia di composti, compreso quello di kyuka, vacanza. Secondo la Koike, che sulla questione è intervenuta con un’ordinanza, questa definizione è fuorviante: dà l’impressione che usufruire del congedo di maternità/paternità sia una forma di vacanza, di riposo e non, come è di fatto, la doverosa assunzione di un onere, che spesso è anche più faticoso del lavoro d’ufficio. Di qui la decisione ufficiale, presa dopo aver lanciato una sorta di concorso pubblico per scegliere la nuova espressione. D’ora in poi il congedo si chiamerà semplicemente ikugyo, o lavoro di accudimento: saltano due caratteri e sparisce dunque il concetto di riposo. Basterà? Sui social l’iniziativa ha avuto una pioggia di consensi, rilanciando la popolarità della governatrice, ma i grandi media sembrano un po’ scettici. «Non è una questione di parole, termini, caratteri ha scritto ad esempio il quotidiano conservatore Sankei è una questione culturale e sociale. Noi giapponesi prendiamo il lavoro sul serio, ma la situazione economica è quella che è: prima di occuparsi dei congedi il governo farebbe bene a creare le condizioni per le quali i giovani tornino a fare figli».