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 2022  luglio 04 Lunedì calendario

L’inflazione vista da Giuseppe De Rita

L’inflazione all’8 per cento, la guerra, il lavoro povero, l’aumento delle diseguaglianze: la tempesta perfetta arrivata dopo due anni di pandemia che avevano abituato gli italiani a rallentare il ritmo, che avevano affievolito quel “furore competitivo” che Giuseppe De Rita ha esaltato e analizzato per oltre 60 anni. Eppure, ragiona il sociologo che ha fondato il Censis e che per 50 anni lo ha raccontato nel Rapporto Annuale pubblicato dalla Fondazione, la crisi può essere un’opportunità, «perché gli italiani nei momenti di difficoltà danno il meglio». Certo, a condizione che ci sia ancora «la voglia di vincere ». Altrimenti «l’unica rimane adattarsi con quello che c’è».
Siamo tornati all’inflazione degli anni Settanta e Ottanta, ma senza i meccanismi di difesa dei salari che c’erano allora.
«Quelli dell’inflazione sono stati anni straordinari. Gli italiani avevano il doppio lavoro, c’erano i Bot people, tutti compravano le case: se la gente reagisse come allora saremmo di fronte a un’opportunità. Siamo abituati ultimamente a pensare a una realtà molto ordinata, e l’inflazione crea invece un pò di disordine, ma nel disordine gli italiani fioriscono, tirano fuori la loro abilità, la loro furbizia. Certo bisogna vedere se anche adesso dopo tanti anni c’è questa voglia di reagire».
I Bot però adesso rendono pochissimo, e il mercato immobiliare ha perso attrattività. Il lavoro è sempre più precario. Come reagiranno gli italiani in queste condizioni?
«Difficile trovare una risposta, nessun sondaggio può aiutarci a capirlo adesso. A tutti quelli che in questi giorni me l’hanno chiesto io ho risposto “datemi due-tre mesi buoni, agosto escluso: a novembre vi darò una risposta”. La crisi crea lo spazio per l’iniziativa personale, ma bisogna capire se in ogni singola persona prevale quella voglia di non dare ragione al processo inflazionistico, come allora. Io nel 1969 me ne accorsi andando a Prato: fu uno shock».
Perché?
«Ero lì per fare una ricerca, eroancora un giovane intellettuale della Svimez, non mi aspettavo di trovare una realtà di quel tipo. Avevano tutti almeno il secondo lavoro, si arrangiavano in ogni modo possibile, c’era moltissima evasione fiscale. Lavoravano con i telai negli scantinati, nei sottoscala. Da Livorno arrivavano le balle di stracci dagli Stati Uniti, le facevano lavare nel fiume Bisenzio, rischiando le multe. E io non riuscivo a capire: ma come, riutilizziamo gli stracci delle famiglie americane...rimasi sconvolto. Prato era la capitale dell’economia sommersa».
Il lavoro sommerso è diventato poi uno dei filoni più importanti per le ricerche del Censis.
«Noi del Censis abbiamo dedicato oltre dieci anni di ricercaall’economia sommersa, dalla quale è scaturita anche la voglia di non darla vinta al fato negativo, di superare la crisi. È così che negli anni Ottanta siamo riusciti anche a lasciarci alle spalle l’inflazione, riuscendo anche a fare a meno della scala mobile».
E che differenza c’è tra il lavoro sommerso di allora e il lavoro precario, in nero, mal pagato di oggi?
«Allora il lavoro in nero era fuori dal contratto, senza garanzie. Oggi è di tutto un pò, è tutto così frammentato».
Un modo di arrangiarsi?
«Anche allora era un modo di arrangiarsi, rispetto a ora però forse più evidente, dichiarato, anzi detto ad alta voce, perché si voleva resistere. Oggi non ci si vergogna ma neanche ci si gloria. C’è ancora la piccola impresa, si apre la startup, però non si dichiara “voglio resistere”, “voglio vincere”, piuttosto c’è un adattamento verso il basso, indolore. Anche se la mia è un’ipotesi da verificare nei prossimi mesi: durante le crisi prevale la chiusura in se stessi, e non è facile decifrarla».
Forse c’è un adattamento verso il basso, ma non è indolore: dalle indagini emergono tagli ai consumi, persino a quelli alimentari.
«Allora quando si lavavano gli stracci nel Bisenzio rischiando le multe e andando consapevolmente contro le regole c’era il senso dell’avventura, adesso non c’è nemmeno quello. Dalla fine degli anni Sessanta a oggi siamo diventati più ricchi. Alle generazioni successive abbiamo trasmesso l’agiatezza, l’eleganza, il Made in Italy, ma non la centralità della sfida: non c’era niente di cui preoccuparsi, i soldi continuavamo a farli noi. Ecco perché la reazione più naturale a fronte di una crisi è quella di adattarsi, di mantenere le posizioni magari scendendo dalla scala di uno o due gradini. Non so se c’è la voglia di vincere contro l’inflazione, e non credo di essere io il solo a non saperlo: credo che al momento non lo sappia nessuno».
Però potrebbero forse essere i giovani a volere accettare la sfida di cui lei parla, le generazioni tra i 15 e i 30 anni, che non hanno più alle spalle, come quelle precedenti, la generazione del Dopoguerra che ha fatto l’Italia.
«Certo la generazione che ha fatto la guerra ha compresso le generazioni successive, il Sessantotto c’è stato anche per questo, è stata la reazione. Oggi quella generazione non è più protagonista, tranne qualche eccezione, come il presidente Mattarella. Bene che vada siamo ottantenni, io sono novantenne. Dopo di noi si sono avvicendati i Berlusconi, i Letta. Oggi non c’è più una generazione passata che campeggia da protagonista, e i giovani possono essere più liberi di costruirsi il loro futuro».