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 2022  luglio 04 Lunedì calendario

Intervista all’architetto Francis Kéré

Nascere in Burkina Faso e immaginare quello che non si è mai potuto guardare. L’architetto Francis Kéré stabilisce con il suo lavoro quanto la visione conti più della vista. Quando sognare e osservare siano azioni coordinate e gemelle.
Lui, vincitore del Pritzker 2022, in pratica il premio Nobel per l’architettura, ha smontato i progetti avveniristici, i coni che sfidano i cieli delle città e anche i boschi verticali. Li ha demoliti senza neanche toccarli, l’urgenza batte quasi sempre la fantasia. Decenni di progetti figli di una seduzione, menti brillanti e mani abilissime a disegnare ciò che non c’è mai stato e che la tecnologia consente e poi arriva un africano che ha bisogno di tirare su scuole e dare strutture alle comunità e viene giù tutto. Il punto di vista dominante si ribalta in un amen. Kéré ha costruito ospedali e asili nell’Africa che non ne aveva, lo ha fatto dopo essersi trasferito a Berlino, a imparare il mestiere, e ora gli altri lo seguono. Come se la via fosse stata chiara. Invece, l’ha illuminata lui.
Costruzioni basse, luce naturale, materiali reperibili, utilità immediata. Un inno alla semplicità che potrebbe pure diventare interesse. Se si ribaltano le abitudini e si inventa una struttura a partire da chi la chiede piuttosto che invitare le persone a occupare un mondo alternativo. Mentre il nostro va ai rovi.
Ora, Kéré semina alberi perché le sue idee possano resistere, l’ultimo lo pianta in questi giorni, alla Triennale di Milano.
Le radici della sua pianta dove portano?
«Le radici non ci riconducono solo al passato ci spingono avanti. L’albero che presento alla Triennale, grazie a Lavazza, arriva dall’Africa, parte dai chicchi di caffè e alla sua ombra la gente si può incontrare. Bere una tazza di caffè, oggi, è insieme un gesto quotidiano e potenzialmente rivoluzionario perché consente un dialogo immediato, uno scambio essenziale. Permette un contatto».
Quanto bisogno abbiamo di contatto?
«Più di sempre, ne abbiamo persa la dimensione. Ora non si può immaginare un luogo e disegnarlo senza tenerne conto, senza avvertire la domanda di un dialogo reale».
Quindi è finita l’era delle archistar che hanno realizzato spazi futuristici?
«L’architettura si è sofisticata sempre di più, fino a essere tanto distante dalla persona, a non avere più una funzione. La tecnologia è una conquista, ma l’abbiamo seguita come un faro, come se non ci fosse altro punto di riferimento. Iniziare a lavorare in Burkina Faso mi ha obbligato a guardarmi intorno: serviva reperire del materiale locale, della manodopera nata lì. Era obbligatorio coinvolgere e per farlo l’unica via era costruire qualcosa di utile per la comunità».
Si aspettava di essere seguito?
«No. Avevo un’urgenza: creare strutture piene di senso e mettere l’essere umano al centro. Non ho usato il lusso perché avevo solo materiali semplici, non ho cercato una idea per riempirla in seguito: mi sono chiesto dove potevano stare i bambini per studiare, i malati per guarire, gli esseri umani per incontrarsi e questo concetto banalissimo e vivo è diventato… non saprei trovare la parola».
Moda?
«Forse. Però trovare una risposta ai bisogni del nostro tempo è l’interrogativo che sta dentro il mio lavoro e non si può scansare. Come affrontare il cambiamento climatico, come ritrovare una intesa con l’ambiente, come considerare l’aumento globale della popolazione, come superare una pandemia. L’approccio è cambiato rispetto a dieci anni fa. Non siamo immuni al nostro tempo».
Come si è sognato architetto nel Burkina Faso senza grandi costruzioni?
«Ma in Burkina Faso le costruzioni esistono, non somigliano a quelle europee: sono riconciliazioni con la natura, recupero del passato che mira a proiettarsi nella nostra epoca. Quello di cui abbiamo bisogno è vero amore».
In architettura?
«Sì, ma non solo. Ovunque, l’amore si traduce anche in potere economico e non è retorica. Abbiamo bisogno di amore, è un’esigenza per uscire dalla crisi in cui stiamo quindi se è il bene primario, è imperativo metterlo al centro degli interessi».
Gli interessi non seguono l’amore.
«Perché si pensa che l’amore non porti benessere. Invece lo fa. Va cambiato il punto di vista, però è un percorso obbligato. Rifiutarlo significa solo peggiorare, perdere tempo. Viviamo in un ecosistema fragile e interconnesso che chiede un diverso rispetto. L’architettura è un esempio facile, ti dà gli strumenti per migliorare nella pratica».
Come le è venuta l’idea di studiarla?
«Ho capito che dare una forma a un sentimento era possibile e… wow. Non potevo fare altro. Ho visto quello che era fattibile, con un istinto umile, non con l’ambizione di un trionfo. Ora voglio fare di più per la mia gente, perché mi fa star bene. Uno stato d’animo contagioso».
In un suo discorso ha lanciato il motto «Il faut faire», bisogna fare. Suona come «Hope» di Obama, come «I have a dream» di Martin Luther King.
«Sì, troppe teorie significano troppe scuse. Dobbiamo fare. Torniamo al semplice, istintivo, immediato ed efficace».