Alexandre Dumas "La camorra e altre storie di briganti", 4 luglio 2022
Dumas racconta la camorra
10 gennaio 1862 [1] Cari lettori, non mi nascondo una cosa: che avete il diritto di chiedermi perché, nel momento in cui prende avvio una nuova pubblicazione, la quale a vostro parere richiederebbe forse la mia presenza a Parigi, io continui a restarmene lontano. Ve lo dirò subito; la cosa non ha neppure il pregio di una confidenza; semplicemente richiede una spiegazione. Sapete forse che la prima premura di Garibaldi, entrando a Napoli, fu di nominarmi direttore onorario del Museo borbonico e degli scavi di Pompei; e, così come a Palermo mi aveva alloggiato nel palazzo di re Ruggiero, di alloggiarmi a Napoli nel palazzo di re Ferdinando. Un giorno o l’altro, scrivendovi dalla terrazza di questo palazzetto, cercherò di dirvi quel che è diventato oggi; ora devo parlarvi soltanto delle ragioni che mi hanno fatto ritornare a Napoli. Ho intrapreso laggiù una grande e lunga opera, qualcosa come dieci o dodici volumi, la storia di un’intera dinastia, una cronaca di centoventisei anni, il racconto del regno di cinque re [2]: Carlo III, Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II, Francesco II; tutto un ramo del ceppo di Spagna, che trapiantato nel suolo napoletano, vi ha gettato radici e vi ha fiorito, per poi seccarsi. Per la prima volta, forse, a uno storico sarà dato di togliere alla storia fino al suo ultimo velo, e di contemplarla nuda nello specchio della verità.
Mi direte che forse è una sventura, che la storia è femmina, e che quando le donne non sono belle, meglio allora avvolgerle in quelle lunghe stole da matrona che ricadevano sul volto e nascondevano il corpo fino ai piedi, piuttosto che farne delle statue con la fronte solcata da rughe di odio e con il corpo logorato dalla lascivia. Risponderò che tutto quel che si dà come insegnamento al popolo dev’essere sincero, che bisogna lasciare il rosso, il bianco e i veli di taffetà alle attrici e alle cortigiane, mentre la storia è verità; tanto peggio per lei, se, uscendo dalla tomba, ci si mostra con le rughe in fronte e il pallore sulle guance! Forse che Shakespeare, il grande storico poeta, ha mai pensato di stendere un mantello sullo spettro di Banquo? No: lo mostra agli spettatori, livido e sanguinante, mentre urla «Sventura!» dalla bocca della sua ferita. Ebbene! A noi è stata offerta una possibilità che forse non è mai stata offerta a nessun altro storico. Il trono di Francesco II è crollato così rapidamente che il povero giovane re, al quale la terra è improvvisamente mancata sotto i piedi, non ha neppure avuto il tempo di salvaguardare la memoria dei suoi avi portando via con sé e dando alle fiamme quei terribili archivi della tirannia, della vendetta e dell’odio. Ogni decreto, ogni lettera, ogni istruzione diplomatica, tutto è rimasto al suo posto; vita privata, vita pubblica, tutto è stato disvelato in quell’immenso crollo, e per la prima volta, lo spettro di una monarchia ci appare così com’è.
11 marzo 1862 [3]
Cari lettori, già vi ho spiegato le ragioni che mi trattengono a Napoli.
Costretto a restarvi, non posso fare con voi che delle chiacchierate napoletane; ma, riflettendovi bene, mi è parso che possano forse riuscire più interessanti, per voi che abitate a Parigi, di qualche chiacchierata parigina. Su quel che accade sotto i vostri occhi, e che conoscete bene quanto me, avrei infatti poco da dirvi. Ma qui è diverso; perché qui succedono cose che non succedono altrove. Non saprei per quale motivo Napoli sia chiamata Italia meridionale. Napoli, le Calabrie, la Sicilia, si tratta sempre di Magna Grecia; Napoli è la nipote di Atene, i napoletani sono i discendenti di Demostene e di Alcibiade, discendenti ben discesi. Per i siciliani il discorso è diverso.
Le invasioni normanne e saracene hanno lasciato in Sicilia una traccia visibile del loro passaggio, e la sua popolazione è composta da tre elementi: il greco, il saraceno e il normanno. Non è raro, a Palermo, imbattersi in una donna che ha i capelli biondi della Normandia, gli occhi delicati della saracena e la statura della greca. I siciliani sono non solo artisti come gli antichi greci, ma anche ospitali come i saraceni e fastosi come i Normanni. A Napoli, le donne raramente sono belle. Con occhi bellissimi, capelli bellissimi, denti bellissimi – tre cose che basterebbero a rendere affascinante una francese – riescono a malapena ad essere attraenti. Quanto al fasto, è cosa rara; l’ospitalità, poi, è sconosciuta.
Sono a Napoli da diciotto mesi, e non mi ricordo che, in questi diciotto mesi, un napoletano mi abbia mai invitato a varcare la soglia della sua porta. In Sicilia, tutte le case si aprivano davanti a me, a cento passi di distanza, tutte le città venivano messe a mia disposizione, e avrei potuto restare dieci anni senza cenare una sola volta a casa mia. Quel che soprattuto colpisce lo straniero che arrivi a Napoli, è l’orribile sporcizia delle strade; non ce n’è una in cui si possa camminare con degli stivali di vernice. Dopo più di un anno che i piemontesi vi mantengono l’ordine, non sono ancora riusciti a organizzare un corpo di spazzini e a far pulire la città. Nelle vie più frequentate di Napoli, s’incontrano maiali che cercano da mangiare per strada e nei mucchi di spazzatura, né più né meno come nei più sperduti villaggi della Bretagna. E i maiali, bisogna dirlo, non sono i più sudici commensali presenti in strada: a ogni passo, incontrate un mendicante che vi mostra il braccio mutilato, il volto consunto, il petto squamato, e che, una volta che vi si è appiccicato, vi segue come Ernani segue Carlo V. Se siete in carrozza e vi fermate davanti a un negozio, la vettura viene circondata all’istante da una torma di mendicanti che implorano la vostra pietà con le più orribili esibizioni. Se date qualcosa a uno, siete perduti; bisogna allora dare a tutti: ci lascerete il contenuto del vostro portamonete. Questi mendicanti sono come le mosche, è impossibile sia proteggersene che scacciarli via. Salgono sul predellino della vostra carrozza, entrano con voi nei caffè e nei negozi, vi aspettano accovacciati fuori della porta dell’albergo. Si è così tanto detto ai napoletani che avevano il sole più fecondo della terra, il più bel cielo del mondo, il mare più limpido, che hanno preso tutto ciò per delle virtù, e non si sono preoccupati di ringraziare Dio dei suoi doni celesti con l’unica azione che è gradita al Signore, il lavoro. Vi è una cosa notevole, la cui verità è incontestabile, vale a dire che più la natura ha fatto per un paese, meno l’uomo si crede obbligato a fare. A Napoli, non azzardatevi a fare una visita o a intraprendere un affare dalle due alle cinque: tutti dormono, ognuno, di sua volontà, ogni giorno sottrae tre ore dalla propria vita. Oggi ci si occupa molto della guerra d’America, che contrapone gli Stati del Sud agli Stati del Nord; si crede che sia una questione sociale: per noi, è una questione di carattere. Gli americani del Nord, soggetti a un clima rigido, sentono il bisogno di lavorare, e dedicano facilmente al lavoro, anche a quello manuale, sette o otto ore della giornata. Gli americani del Sud, quasi tutti uomini del Nord trasportati in un clima snervante, non cercano che una cosa, il riposo, e tengono a mantenere gli schiavi neri per far compiere loro il lavoro che non possono fare da sé. Infatti i negri del Senegal, della Guinea, di Zanzibar, che nel loro paese sono avvezzi a una temperatura di cinquanta o sessanta gradi, incontrandone una di trentacinque o quaranta a New Orleans, si trovano in un clima temperato e lavorano per riscaldarsi.
Tutto è relativo. I medici di Arcangelo e di Torneo mandano i tisici a San Pietroburgo, come noi li mandiamo a Nizza e a Hyères. Questo fa sì che vi sia una gran quantità di industrie di fantasia che non esistono altrove. Vi ho illustrato quella dei mozziconi di sigaro [4]; ebbene, essa, da sola, dà da vivere a tre o quattromila persone; la mendicità addirittura a ventimila; la pesca e la vendita del pesce ad altrettante; a Santa Lucia, c’è un’intera popolazione che vive di un privilegio concessole dal re Ferdinando, come ricompensa per i patrioti che vennero bruciati, sgozzati, impiccati, squartati, arrostiti e mangiati nel 1799. Si tratta della vendita, per un soldo a bottiglia, di un’acqua sulfurea e di un’acqua ferruginosa leggermente purgativa; per tre mesi all’anno, tutta Napoli si rifà il sangue e si purga. Lungo la costa, ci sono file di water-closets all’aperto, dove ognuno attende, riscaldandosi al sole, nella posizione più spontanea del mondo, l’effetto di quell’acqua purgativa. Se diceste a quella brava gente che quel che fanno all’aperto e sotto gli occhi del pubblico è qualcosa che non si fa in nessun paese del mondo, suscitereste in loro un enorme stupore. La parola pudore non ha un equivalente nel dialetto napoletano. Allo stesso modo, finché dura l’estate, sotto le mie finestre ci sono una cinquantina di sommozzatori che pescano ricci, vongole, tartufi di mare, e tutte quelle conchiglie di forme diverse che sono chiamate frutti di mare. Passano la loro vita a fare le capriole come le focene, e in quel movimento di rotazione, mostrano di volta in volta la testa, il posteriore e i piedi, e tutto questo a cinquanta passi dalla spiaggia. Non ho mai sentito una donna che trovasse la cosa sconveniente. Ebbene, ecco degli sventurati che non potreste obbligare, a colpi di sferza, a fare un lavoro che, invece di nuocere alla loro salute, la rinvigorirebbe, e che svolgono volontariamente, perfino con una certa voluttà, una fatica che li uccide prima dei cinquant’anni. Costretti a passare una parte della loro vita sott’acqua e a trattenere il fiato per un tempo medio di quindici-venticinque secondi, quasi tutti, ancor giovani, muiono per un aneurisma.
Quanto guadagna al giorno questa gente? Dai sette agli otto soldi. Qualsiasi altro lavoro gliene frutterebbe trenta. È vero che a Napoli esiste un’altra classe comprendente dalle venticinque alle trentamila persone che guadagnano dai due ai quattro franchi al giorno, senza far niente. – Chi sono questi privilegiati della società? – mi chiederete. Ve lo racconterò nella prossima chiacchierata.
14 marzo 1862 [5]
Cari lettori, quei privilegiati della società di cui vi parlavo nella mia ultima conversazione sono i camorristi. – Chi sono i camorristi? – mi domanderete. – I membri della camorra. – Cos’è la camorra? Se foste a Napoli, vi risponderei semplicemente: la camorra è la camorra; ma siete in Francia, e devo cercare di dirvi cosa essa sia. La camorra è di origine spagnola; in spagnolo, camorra significa rissa, scontro, battaglia. La Spagna, come sapete, non solo è venuta a Napoli con Alfonso d’Aragona, il quale è entrato da un acquedotto, ma anche con don Carlo, duca di Parma, figlio di Filippo V, nipote del gran Delfino, bisnipote di Luigi XIV. Si tratta di quello stesso don Carlo che, alla morte di suo fratello Ferdinando, ha lasciato il trono di Napoli a suo figlio, di sette anni, e se ne è ritornato a Madrid per regnarvi con il nome di Carlo III.
Ebbene, forse non ci crederete, ma una volta lasciata Napoli, che vi assicuro è la città più sporca del mondo dopo Costantinopoli, ha trovato Madrid più sporca di Napoli! Questo buon re, il migliore d’altronde che Napoli abbia avuto nella linea di diritto divino, era pieno di buone idee; vedendo che Madrid era così sporca, volle farvi quello che i piemontesi non son riusciti a fare a Napoli, cioè pulirla. Cosa pensate che fece Madrid? Che gli manifestò riconoscenza? Oh, davvero!
Madrid si rivoltò; ma Carlo III tenne duro, e Madrid fu ripulita.
– I popoli sono come i bambini – affermò filosoficamente il re Carlo III; – quando li si lava, piangono.
Ma la cosa più curiosa è che in quella sollevazione, la scienza giunse in soccorso delle abitudini. I medici dichiararono infatti che l’aria di Madrid, la più sana di tutte le arie, era a loro parere tale solo a causa degli elementi che la componevano e la rendevano ricca di azoto; secondo loro, la pulizia delle strade avrebbe tolto all’atmosfera della città una parte della sua salubrità. Madrid pianse, ma volente o nolente, venne lavata. Ebbene, questo buon re, partendo, lasciò un ministro che si chiamava Tanucci, e un’istituzione che si chiamava camorra.
Lasciamo che sia la storia ad occuparsi del ministro, e la chiacchierata ad occuparsi della camorra. La camorra è una specie di società segreta che, come tutte le società segrete, ha finito per diventare una società pubblica. La camorra è l’opposto della Santa Vehme [6]. La Santa Vehme era la punizione del colpevole che la giustizia non raggiungeva, con una giustizia talmente misteriosa che si poteva credere fosse la giustizia divina. La camorra è l’impunità del furto e dell’omicidio, l’organizzazione dell’ozio, la remunerazione del male, la glorificazione del crimine. La camorra è il solo potere reale al quale Napoli obbedisca. Ferdinando II, Francesco II, Garibaldi, Farini, Nigra, Cialdini, San Martino, La Marmora, tutti costoro non sono che il potere visibile: il vero potere è quello nascosto, la camorra. Ogni prefetto di polizia che cerchi di agire a Napoli senza la camorra è condannato in anticipo a cadere nell’arco di quindici giorni: negli ultimi quindici mesi, Napoli ha avuto dieci prefetti di polizia e sette luogotenenti generali. – Ma quanti camorristi ci sono a Napoli? – mi domanderete. È come chiedere quanti ciottoli ci sono sulla spiaggia di Dieppe. Chi può sapere quanti camorristi ci sono a Napoli? Dire da quindici a trentamila non è dir troppo. – Da quali segni visibili li si riconosce? Dai loro abiti di velluto a colori sgargianti, dalla loro cravatta chiara, dalle catene degli orologi incrociate in tutti i sensi sul panciotto cangiante, dalle loro dita cariche di anelli fino all’ultima falange, e dai lunghi bastoni di rattan. Il camorrista un po’ agiato presta su pegno alla giornata. Tutte quelle catene, quegli anelli, quei gioielli che gli brillano addosso, sono pegni che restituisce lealmente se il prestito gli viene puntualmente restituito nel giorno stabilito, ma che trattiene se il debitore ritarda.
Il camorrista è un Monte di Pietà vivente.
Lasciamo il camorrista, sul quale ritorneremo, e passiamo alla camorra.
Lo abbiamo già detto, la camorra è di origine spagnola. Ne troviamo traccia sotto il regno di Carlo III, ma, senza dubbio, risale più indietro nel tempo. Probabilmente, e non possiamo procedere che per ipotesi, la sua fondazione risale all’epoca della conquista dell’America da parte della Spagna, quando gli avventurieri si dispersero. Nella vita delle nazioni ci sono epoche di sovrabbondanza durante le quali i popoli sciamano e si diffondono per il globo. La Spagna era in una di queste epoche quando Ferdinando il Cattolico conquistò Napoli nel 1503. Senza dubbio gli avventurieri dettero vita a un’associazione avente per scopo il sostegno reciproco; forse il brigantaggio, inestirpabile nelle Calabrie e negli Abruzzi, non è altro che una ramificazione della camorra. La camorra, come la Santa Vehme tedesca, ha un proprio tribunale invisibile che giudica e condanna, sia gli stranieri che potrebbero nuocerle, sia i propri membri che non mantengono gli impegni presi al momento della loro iniziazione. Ha tre gradi di punizione: la bastonata, lo sfregio o colpo di rasoio, la coltellata.
Con la bastonata si è costretti a letto per quindici giorni, con lo sfregio si resta segnati a vita; la coltellata uccide. Nelle nostre antiche commedie si dice per ridere: «Ti darò una scarica di bastonate», e non le si danno mai. Nelle province meridionali, lo scherzo è più lugubre; dicono: «Ti darò una coltellata», e la danno. A Napoli, l’omicidio è un semplice gesto. E non è stato mai punito con la morte: il boia rovinerebbe la municipalità.
18 marzo 1862 [7]
Cari lettori, la camorra conobbe un grande sviluppo soprattutto sotto Ferdinando I nel 1821 e sotto Ferdinando II nel 1848.
Si ricorda l’omicidio di Gianpietro, che nel 1821 cadde colpito sulla soglia della porta da quarantadue pugnalate, tutte inferte con la stessa arma, che gli assassini mascherati si erano passati di mano in mano. Si ricorda l’omicidio di Rossi [8], caduto sui gradini della Cancelleria romana, e del quale, ogni giorno, vediamo l’assassino a Toledo e a Chiaia. Tutto ciò è opera della camorra. Nel 1848, lo stesso Poerio [9] fu costretto ad affiliarsi ai camorristi. Ogni persona che entra in carcere, per qualunque motivo – e diciamo subito che i motivi politici suscitano sempre un grande rispetto –, ogni persona, quando entra in carcere, riceve, il giorno stesso del suo ingresso, la visita di uno sconosciuto, il quale salutando il carcerato con perfetta gentilezza, gli chiede quale somma voglia dare per l’olio.
È questa la formula usuale: l’olio alimenta la lampada; la lampada è luce, la luce vita. Se il carcerato ignorava cosa fosse l’olio, gli veniva fornita una spiegazione. Se il carcerato era ricco, e il timore o il buonumore lo spingevano ad esser generoso, non c’era sorta di riguardo o di attenzione che i camorristi, e di conseguenza i carcerieri, che sono quasi tutti camorristi o alle dipendenze della camorra, non avessero per lui durante il suo soggiorno in carcere. Se al contrario era povero o avaro e si rifiutava di versare il tributo, non c’era sorta di vessazione o di tortura di cui non fosse vittima. Non c’è bisogno di dire che quel tributo, consistente o modesto che fosse, confluiva nel monte comune e serviva ad alimentare la paga che tutti i camorristi ricevono ogni giorno. Conosco un vecchio prete calabrese – a quel tempo giovane – che fu associato a Palazzo Capuano, trasformato dagli spagnoli in prigione, da palazzo che era. Appena sistematosi nella sua cella, ricevette la visita sacramentale. Il povero prete non aveva un soldo, e di conseguenza non poteva dar niente: confessò la propria indigenza, ma l’uomo che era incaricato di prelevare la decima non volle crederci, tanto che il dialogo degenerò in alterco e l’alterco in minacce. Il prete era calabrese, quindi audace: gli venne meno la pazienza. – Se avessi un coltello come te – disse al camorrista, – non parleresti con tanta boria. – Non sia mai detto – disse il camorrista, anch’egli audace – ogni camorrista lo è, altrimenti non apparterrebbe alla camorra, – te ne procuro uno.
Uscì, e poi rientrò con due coltelli, come un duellante con due spade. Il prete, che più d’una volta in gioventù aveva maneggiato il coltello, richiamò alla memoria le sue conoscenze di scherma e si destreggiò con tale abilità che stese il suo avversario al suolo. Dopo di che, chiamò il suo carceriere, con un gran timore di avere ora due questioni difficili da risolvere invece di una. Il carceriere, che era stato avvertito da una vanteria del camorrista di quel che stava per succedere, guardò il ferito, poi il prete, salutò rispettosamente quest’ultimo e portò via il ferito dicendo: – Tanto peggio per lui, perché è stato così maldestro?
L’indomani il prete, al risveglio, trovò quattro carlini al suo capezzale. La camorra, senza consultarlo, lo aveva ritenuto, come il malato immaginario, degno di essere ammesso. I quattro carlini erano la sua paga da camorrista di terzo grado. Nei sette anni che rimase in prigione, quella paga non gli venne meno neppure per un giorno; con i suoi quattro carlini, faceva l’elemosina ai carcerati poveri.
Diamo ora un’idea dell’estensione che ha preso la camorra. Salite su una vettura a noleggio; un uomo che non conoscete e che sembra un amico del cocchiere sale a cassetta con lui.
È un camorrista. Il cocchiere gli deve e gli darà il decimo di quanto riceverà da voi, senza essersi dato altra pena che quella di farsi portare in giro sedendo a cassetta, mentre voi vi fate portare in giro in carrozza. Un venditore di frutta entra a Napoli; un camorrista lo aspetta alla barriera, compra la frutta e la valuta: il venditore di meloni, di fichi, di pesche, di pere, di mele o d’uva gli deve il decimo del valore stimato. Napoli, che fece una rivoluzione con Masaniello [10] per non pagare la tassa imposta dal duca d’Arcos sulla frutta, non ha mai pensato di rivoltarsi contro i camorristi: vero è che Napoli non ha avuto che un solo Masaniello.
La camorra preleva un diritto su ogni cosa: sulle barche, sulle merci alla dogana, sulle fabbriche, sui caffè, sulle case di tolleranza, sui giochi di carte. Oggi che ci sono i giornali, i suoi diritti si estendono anche a quelli. A Napoli cento chioschi sono rimasti sfitti perché il proprietario non ha potuto mettersi d’accordo con i camorristi: nessuno osa affittare. Alla camorra non sfugge niente, e tuttavia, qual è il re che le ha concesso questa facoltà? Nessuno. Del resto, stiamo per esporre alla vostra considerazione, nei limiti che la decenza ci consente, le leggi della camorra sotto i Borboni, e devo dire che il cambiamento di dinastia le ha modificate in misura assai modesta.
Il codice mi è stato dato da un camorrista al quale ho avuto la fortuna di fare un servizio in un suo momento di bisogno, e che ha voluto testimoniarmi la sua riconoscenza con questo prezioso documento. Lo traduco con la maggiore esattezza possibile, conservando il carattere, e quasi lo stile, dell’originale:
La camorra sotto i Borboni... Ma mi accorgo che per oggi la cosa ci condurrebbe troppo lontano: avrete il codice camorrista nella nostra prossima chiacchierata.
21 marzo 1862 [11]
Cari lettori, vi abbiamo promesso il codice della camorra.
Eccolo:
Art. 1 – I camorristi hanno un governo a parte, ed una legislazione fatta per loro.
Art. 2 – Il camorrista, quando è ammesso, deve giurare di non tradire mai, per qualsivoglia causa, anche con il pericolo di vita, il comitato camorrista sostenuto dal governo di Sua Maestà (Deo Gratia) [12].
Art. 3 – Il camorrista deve cominciare dall’essere contrabbandiere, sotto la protezione della polizia. Art. 4 – Il camorrista d’ogni piastra [13] che riceve deve dare quattro carlini al commissario del quartiere, che la deve dividere con l’ispettore di servizio, col cancelliere e col caposquadra [14].
Art. 5 – Il camorrista, ha diritto di andare in tutt’i luoghi pubblici, case di prostituzione, trattorie, biliardi, mercati d’ogni specie, dogane, ferrovie, stazioni di posta per carrozze da nolo, ecc. Deve riscuotere un grano [15] per ogni carlino che riceve il cocchiere, un grano per ogni carlino della posta del giocatore. I padroni de’ caffè debbono pagargli un tanto per settimana, e così ogni oste, ogni facchino, ogni impiegato delle stazioni delle strade ferrate, che gli deve dare un grano per ogni carlino, tassa imposta ancora a’ venditori di frutta che vengono dalla campagna. Chi porta cinquanta ceste di frutta, gli deve un grano per ognuna.
Art. 6 – Alla dogana ogni proprietario di merci deve dare al camorrista due carlini per ogni carretta, e così ogni proprietario di postribolo deve dare al camorrista due carlini per ogni donna che esercita il mestiere nella casa.
Art. 7 – Ogni ruffiano pagherà al camorrista un carlino per settimana.
Art. 8 – Ogni stabilimento di bagni pagherà al camorrista sei carlini per settimana per tutta la stagione.
Art. 9 – Tutti i camorristi dipendono da un capo che ha titolo di generale e che ordinariamente si trova nel bagno di Ponza [16].
Tutti i camorristi dipendono ciecamente da lui. L’elezione si rinnova ogni anno. La parte restante della Carta non è divisa in articoli, e sembra una semplice raccomandazione obbligatoria. Il denaro della camorra serve anzitutto: a pagare la polizia che la protegge; poi gli ufficiali superiori della camorra che stanno in galera; i capi, secondo il grado che occupano; e prima di tutti, immediatamente dopo la polizia, il generale che riceve quattro parti; i capi camorristi di tutti i quartieri ricevono due parti; i camorristi comuni una parte. L’apprendista camorrista riceve, invece che un grano per carlino, un grano per ducato, finché non viene nominato camorrista proprietario.
Ma per arrivare a questo brevetto d’onore deve sottoporsi ad una prova. Deve battersi al coltello con il capo. Se questi rimane contento di lui nel duello, scrive al generale che il tal camorrista è degno della sua benevolenza e che crede di poterglielo presentare come meritevole del titolo di camorrista proprietario. Il generale, a seguito di questa presentazione, scrive ai capi del quartiere al quale appartiene l’apprendista camorrista: «Potete accettare come camorrista il tale...». Il giorno in cui l’apprendista è accolto come camorrista proprietario è obbligato a prestare giuramento in presenza di tutta la società. Dopo, tutti i camorristi mettono mano ai coltelli, li pongono in croce
sopra un crocifisso e dichiarano che chiunque tradirà la camorra sarà messo a morte, senza che la polizia abbia nulla da ridire. Fatto il giuramento, fatta quella minaccia, tutti si abbracciano e vanno a pranzo insieme: ma, dal momento che queste assemblee riuniscono solitamente almeno tremila persone, il nuovo camorrista è ammesso al tavolo dei capi immediatamente dopo il generale, gli altri si sparpagliano nella campagna. L’indomani dell’ammissione il camorrista va presso il commissario del quartiere e, presentatosi a lui, pronuncia le seguenti parole di rito: – Ecco un nuovo operaio che ha ricevuto la proprietà. Quindi il nuovo camorrista dà dieci piastre al commissario del quartiere. Da parte sua il commissario del quartiere avvisa il prefetto di polizia che nel quartiere è stata fatta una nuova nomina.
La camorra, per assicurare al nuovo camorrista la protezione del prefetto di polizia, gli dona entro un mese una polizza [17] di cento ducati. Ogni anno i camorristi tengono un’assemblea, nella quale il prefetto di polizia sceglie dodici individui che entrano al suo servizio con cento ducati al mese. Se un camorrista è riconosciuto vigliacco e indegno è cacciato dalla società e deve restituire il coltello al capo camorrista che – al cospetto di tutti – lo avvisa che, se rivelerà i segreti della camorra, sarà spietatamente assassinato. Il camorrista cacciato dalla società non è più buono che a diventare un ladro. Quando la camorra deve punire, i dodici capi si riuniscono, giudicano il colpevole assente e sortiscono colui che farà la vendetta.
Sortito il nome, quegli cui spetta deve uccidere o essere ucciso. Quelli che dopo la rivoluzione di Napoli più si sono serviti della camorra durante la loro permanenza al potere, sono i signori Liborio Romano e Spaventa. Liborio Romano, nell’ultimo mese del regno di Fancesco II, ha mantenuto la tranquillità di Napoli mediante la camorra, con la quale faceva da contrappeso alla polizia della camarilla [18]. Quando ero nel porto di Napoli, e trattavo con lui la resa della città a Garibaldi, mi aveva dato una guardia di camorristi che era agli ordini di un capo di secondo piano chiamato Colas-Colas. Quest’uomo, dotato di un notevole spirito naturale, era stato coinvolto nella rivoluzione del 1848.
Condotto dinanzi al giudice Navarro, degno successore di tutti quei giudici eccezionali che hanno decimato Napoli negli ultimi sessant’anni, Navarro lo condannò a quarant’anni di galera. – Quarant’anni, signor giudice – disse Colas-Colas, – sono lunghi assai! Alla fine, si farà quel che si potrà, voi farete il resto. Quando una spia della polizia regia mi disturbava, lo indicavo a Colas-Colas, il quale la arrestava e la incarcerava come elemento reazionario.
1 «Le Monte-Cristo», V, 4 [n.d.c.].
2 Storia dei Borboni di Napoli. Si veda infra, la Postfazione, p. 306 [n.d.c.].
3 «Le Monte-Cristo», V, 21 [n.d.c.].
4 Questo aneddoto è contenuto in un’altra chiacchierata, pubblicata su «Le Monte-Cristo» del 7 gennaio 1862. A Napoli, i cenciaioli raccattavano i mozziconi di sigaro per rivenderli. Spesso servivano anche da moneta [n.d.c.].
5 «Le Monte-Cristo», V, 22 [n.d.c.].
6 Società d’ispirazione cristiana, creata in Vestfalia nel XII secolo [n.d.c.].
7 «Le Monte-Cristo», V, 23 [n.d.c.]
8 Pellegrino Rossi era un giurista e un uomo politico. Formò il governo di Pio IX, guidando il ministero dell’Interno e quello delle Finanze. Gli obiettivi del suo programma erano l’abolizione dei privilegi, la soppressione delle esenzioni fiscali, la separazione fra potere ecclesiastico e potere civile, ma le sue proposte furono troppo liberali per la Curia, troppo ugualitarie per i conservatori e non abbastanza democratiche per i patrioti rivoluzionari. Venne assassinato con una pugnalata alla gola nel palazzo della Cancelleria, nel novembre del 1848 [n.d.c.].
9 Giuseppe Poerio fu uno dei più prestigiosi rappresentanti dei giacobini napoletani [n.d.c.].
10 Tomaso Aniello, detto Masaniello, di mestiere pescatore, nel 1647 si mise alla testa del popolo napoletano insorto contro gli esattori delle imposte. Assediò il viceré spagnolo nel suo palazzo, lo costrinse ad abolire l’imposta sulle derrate e a riconoscerlo come governatore. Per sette giorni restò padrone assoluto di Napoli. Abbagliato dall’improvvisa fortuna, divenne presto crudele, commettendo massacri in città, prima di essere abbandonato dai suoi e ucciso da emissari del viceré, il 16 luglio 1647 [n.d.c.].
11 «Le Monte-Cristo», V, 24 [n.d.c.].
12 Borbonico, beninteso.
13 La piastra vale dodici carlini, il carlino un po’ più di quaranta centesimi.
14 Il capo degli sbirri.
15 Le monete aventi corso legale a Napoli erano il carlino, suddiviso in quattro cinquini, ognuno dei quali valeva due grani; il grano era pari a due tornesi, il tornese a un quartino e mezzo, il quartino a due piccioli, il picciolo a due cavalli [n.d.c.].
16 Vale a dire a un forzato recluso nel bagno di Ponza.
17 Specie di biglietto di banca sul quale ogni successivo proprietario appone la sua girata.
18 Il termine designa, con una connotazione negativa, un gruppo di consiglieri del principe. Di solito, essi non rivestono incarichi ministeriali e non sono titolari di un’autorità ufficiale, ma consigliano il sovrano in modo informale [n.d.c.]
Alexandre Dumas La camorra e altre storie di briganti. A cura di Claude Schopp. Traduzione di David Scaffei. Donzelli, Roma 2012
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