Tuttolibri, 2 luglio 2022
Intervista a Joyce Carol Oates - su "L’altra te" (La nave di Teseo)
Una delle patologie del presente, si dice, è aver disimparato a morire. L’estensione della vita umana attraverso la criogenia, la rigenerazione del sangue, ogni tipo di innesto artificiale che possa prolungare la nostra presenza corporea nel mondo, si accompagna spesso a un logoramento inevitabile della memoria: i corpi vanno avanti mentre la persona dentro inizia a dimenticarsi a cosa servono. I romanzi che si occupano di questa sparizione e di questo deragliamento della memoria sono infiniti; Joyce Carol Oates stessa ha iniziato a trattare spesso il tema della dimenticanza, attraverso malattie degenerative che portano i suoi personaggi anziani a sparire sul posto, suscitando dolore e violenza in chi sta attorno. Una violenza che si fa spesso letale, e intrisa di sangue. Ma c’è forse un altro effetto che accade, più comune e meno drammatico, mentre i corpi continuano ostinatamente a vivere: e cioè che la memoria e la percezione di sé si biforca, e si inizia a pensare costantemente alle persone che saremmo potuti diventare, come sarebbero andate le nostre vite se fosse occorso questo evento invece di un altro. La memoria che invece di spaccarsi diventa una stanza degli specchi in un Luna Park, in cui siamo riflessi in segmenti diversi, rimpiccioliti, allargati, mostruosi, distorti. Spettrali, raramente lineari: è questa la verità che si dovrebbe dire sulle stanze degli specchi, e cioè che tutta l’energia profusa nel pensare all’altro che si poteva essere, non restituisce quasi mai un’immagine nitida e speranzosa. Ma è una verità cruda: una verità che Joyce Carol Oates sa dire. In L’altra te, la scrittrice americana si avventura in queste biforcazioni dell’esperienza, offrendo a chi legge delle storie a bivi come quelle che si leggevano in Topolino, solo che qui c’è ben poca euforia nel cambiare strada: basta andare male a un esame, come succede a un personaggio, per fare il processo inverso della farfalla e tornare crisalide. Oppure c’è chi approda a quello stadio larvale dopo un attacco terroristico in un caffè, o forse ci muore, e la sua coscienza prende a viaggiare per chiedersi anche da morti come sarebbe potuta andare.
Nelle storie a bivi che leggiamo durante l’infanzia, c’è sempre l’illusione di una scelta, che siamo noi a controllare la storia, e il talento di Joyce Carol Oates sta nel far credere che anche i suoi personaggi ce l’abbiano per un istante, nel momento in cui decidono o meno di salvare uno sconosciuto che sanguina o una donna decide se sentirsi o meno un’assassina, una parola che le arriva sibilante da un termosifone, e le fa capire che lei non prende ordini da nessuno. C’è un altro sé, dentro, che è più suscettibile e aperto alle tentazioni del sovrannaturale, che a un certo punto prende un bivio per conto suo, e raramente si tratta di una scelta consapevole: Joyce Carol Oates si è sempre interessata agli spazi ristretti in cui i personaggi si ritrovano a fare conti con i loro sabotatori interni, di solito le carceri o le cliniche per chi soffre di patologie mentali, ma da un po’ nei suoi romanzi si affacciano i luoghi della cattività legati alla vita adulta. Gli ospizi, i reparti di geriatria, le stanze domestiche in cui si viene confinati e trattenuti a letto. È il suo modo di confrontarsi con una malattia spettrale, la perdita della memoria, cercando anche dei contrappunti sarcastici, in cui invece di sparire i suoi personaggi appunto si sdoppiano, si triplicano, affollano la stanza.
L’altro motivo che emerge in L’altra te è l’intima passione di Joyce Carol Oates per una specie di «Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando?» reso iconico da Robert De Niro in Taxi Driver, solo che nei suoi racconti diventa un «Ma dici a te?»: non si contano le sue voci, soprattutto femminili, che iniziano a estroflettersi e a parlare a loro stesse ricorrendo al tu, senza diventare delle maniache né delle esaltate, ma esprimendo semplicemente un dubbio, una malinconia, spesso un rimpianto sarcastico solo leggermente intinto di follia, magari anche temporanea. Tendiamo spesso a pensare che chi parla con sé stesso sia pazzo e compromesso, soprattutto se lo fa ad alta voce. Joyce Carol Oates, attraverso lo scavo psicologico romanzesco, nonostante la paura e la suspense che ci fa attraversare, dimostra che questo dialogo interiore è spesso l’unico modo per tenersi assieme, per rinsaldarsi in una forma, quando tutte le strade che avremmo invece potuto prendere stanno lì, pronte a spaccarci, e a farci dimenticare come ci siamo finiti, ancor prima di morire.
Intervista:
L’altra te di Joyce Carol Oates, tradotto da Alberto Pezzotta per La nave di Teseo, è una raccolta che parte da uno sdoppiamento e da una sorta di gemellaggio: una donna inizia a dialogare con l’altra versione di sé, quella che non si è sposata, non è diventata madre e si è dedicata alla scrittura. La letteratura ha una fascinazione per i gemelli mancati, i fratelli e le sorelle che prendono strade diverse a partire dallo stesso nucleo familiare, soprattutto quando si tratta di incarnare uno il Bene e l’altro il Male. Caino e Abele nella Bibbia, i loro omonimi ne La valle dell’Eden di Steinbeck: questi gemelli mancati sono una premessa per interpretare degli atti di terrorismo nel mondo più vasto. Quel che è affascinante nel modo di raccontare di Joyce Carol Oates, è che spesso l’intimità e lo spavento legati alla scissione e al gemellaggio avvengono nella stessa persona. In questo caso una donna che è diventata una scrittrice non lo è mai diventata e affronta un’incursione parallela in una vita che forse poteva essere migliore, forse più felice, sicuramente diversa.
La vita diversa, la vita possibile: sono idee che irradiano sia paura sia tentazione. Da cosa nasce il tuo interesse ricorrente nei tanti sé che si trovano in una singola persona o personaggio?
«Anche se il Sé è un’entità stabile e identificabile, quell’Io che ci accompagna sempre nei nostri sogni e nella veglia, dobbiamo ammettere il ruolo che la pura casualità gioca nelle nostre vite. Ne L’altra te si tratta dell’esplorazione delle vite alternative possibili che possono essere la conseguenza di un caso fortuito, un caso che determina in che modo l’esistenza di una persona farà uno scarto e cambierà direzione. Per molti di noi, queste rotte parallele sono evidenti soprattutto durante l’adolescenza. In quel momento siamo studenti - affrontiamo prove ed esami cruciali - che determinano il nostro futuro: dove andremo all’università se mai ci andremo, chi incontreremo che influenzerà e cambierà le nostre vite. Nel primo racconto, una ragazza sotto esame che vive uno stress enorme non va bene; la sua compagna di classe, che è altrettanto intelligente, va molto bene; e così le loro vite prendono direzioni diverse. Mi interrogo spesso sulle chiavi di volta della mia vita, e mi rendo conto quanto sarebbe stato facile e possibile andare da tutt’altra parte».
La tua scrittura affida spesso questa conversazione con l’altra parte di sé alla narrazione in seconda persona, che ha un suono e una forma molto ravvicinata anche se stabilisce un confine. Quando usiamo il “tu” per rivolgerci a noi stessi, la nostra voce stabilisce una separazione tra realtà diverse mentre va avanti e si dispiega. Paragonato al flusso di coscienza, questo tipo di dialogo interiore è molto più fantasmatico.
«Ci sono delle storie in cui la prospettiva del “tu” è perfetta, non potrebbe essere altrimenti. Il personaggio rumina, analizza, ragiona e fa i conti con sé stesso; il lettore sta solo lì ad ascoltare. È una forma molto intima e speciale. Quando ci sono tanti altri personaggi attorno a quello centrale, e una storia molto più articolata invece, questo «tu» si smarrisce e si perde, non aiuta. Per me è la forma della concentrazione intensa, dell’intimità».
“L’altra te” è una raccolta che rievoca una specie di Catena di Sant’Antonio o una filastrocca per bambini. C’è una specie di trasmissione maniacale tra le varie storie. La scissione del primo racconto si rapprende in due donne diverse in “Le due amiche” che si ritrovano a gestire una distanza tra loro e uno slittamento di posizione. La testa insanguinata introduce l’emorragia della dimenticanza e la possibilità di diventare straniera a chi dovrebbe conoscerti e poi ci imbattiamo nel black humour di “Dove sei?” sul potenziale letale nel cercare di definire e rintracciare sempre l’altra persona… come funziona questo processo del mettere insieme i materiali per la scrittrice e l’editor? Raccogliere storie equivale a scriverne una superiore, che le contiene tutte?
È una domanda intuitiva e che va a parare nella giusta direzione. Dispongo e metto in sequenza miei racconti con moltissima cura, in modo che dicano una storia ulteriore quando si dispiegano nel testo. È fondamentale leggere i racconti nell’ordine in cui appaiono, non a casaccio. Di solito inizio con un racconto diretto chiaramente realistico, poi mi sposto verso una maggiore astrazione. Tuttavia in questo caso il secondo racconto – Le due amiche – è già in una zona mista e confusa della realtà dato che leggendo si scopre che una o forse tutte e due le donne potrebbero non essere vive ma morte nello scoppio della bomba al ristorante; o forse una delle due è morta durante un’operazione, o forse ha “perso” il senso del tempo durante l’anestesia e sta osservando gli eventi da un’altra prospettiva. In Aspettando Kizerci sono diversi sé alternati che spuntano da un incidente durante l’infanzia che accade diversamente in base a ogni sguardo diverso. (Ecco come siamo segnati in maniera irrevocabile dalle cose che ci succedono: accidentalmente)».
Sei sempre stata una “stalker” tarkovskiana nel tuo modo di addentrarti nei vari generi letterari, ma approfitterei del suo riferimento a Walt Whitman per il titolo “La notte, il sonno, la morte e le stelle” e la presenza di una “T-shirt con l’effige di una Emily Dickinson vagamente diabolica” in “L’altra te” per chiederti del tuo rapporto con la poesia, che forse è leggermente meno noto a chi ti legge in lingua italiana.
«Questa invece è una domanda molto complicata! Non posso neanche iniziare a rispondere in uno spazio così limitato. La poesia è immensa. Ho scritto diverse raccolte di poesia io stessa, e ho sempre ammirato l’esuberanza e l’ardore di Walt Whitman, ma anche la chiarezza capace di trafiggere la pagina e l’intuito sovrannaturale e psicologico di Emily Dickinson. Per entrambi, vale un innamoramento perenne per il linguaggio. La poesia significa essere innamorati della lingua».
Ho fatto un sogno molto buffo dopo aver letto “L’altra te”: ho sognato un finto memoir di Joyce Carol Oates chiamato “Il terrore” e ovviamente la mia mente è andata a “L’orrore!” di Kurtz in “Cuore di tenebra”. Stavi promuovendo il libro definendolo un’autobiografia fantastica attraverso tutti i tuoi personaggi. Non so se “Il terrore” sarebbe il titolo giusto, ma sono curiosa di sapere che parole ti vengono in mente quando pensi al tuo paesaggio letterario infinito. Quando pensi alla parte di te che è diventata davvero una scrittrice.
Anche qui, tante idee, poco spazio. Sono una scrittrice che si concentra sulle storie ma anche tanto sulle idee e sui personaggi, soprattutto nei romanzi, in cui la crescita e il cambiamento graduale di una singola persona fa sì che il lavoro diventi molto personale, questo sì biografico. Come se stessi vivendo davvero io queste vite parallele, con un’immersione profonda e un’emotività intensa, difficile da definire».