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 2022  luglio 03 Domenica calendario

Biografia di Alessandro Piperno raccontata da lui stesso

Da quasi vent’anni, il primo (raramente il secondo) aspetto che colpisce di Alessandro Piperno è il suo abbigliamento ricercato. Viene definito gagà, dandy, english style, damerino. Questo stile ogni tanto finisce come paragone con la sua scrittura, anch’essa assai ricercata, in alcuni casi barocca, magari ampollosa (“lo so, me ne rendo conto”), in cui è quasi sempre preferibile un aggettivo in più, una parabola in più, un’iperbole in più.
A Roma ci sono 40 gradi.
Alessandro Piperno a mezzogiorno è in completo chiaro, pochette, camicia e cravatta perfettamente accollata. Non ha il vezzo del mocassino senza calzini. E non si scompone neanche alla richiesta (il colpevole è chi scrive, ndr) di spegnere l’aria condizionata: in un’ora e mezzo, sul suo volto, non compare alcun accenno di calore né di rimprovero.
L’eleganza non è una merce per tutti.
Il suo ultimo libro, Di chi è la colpa (Mondadori), è uno dei più belli della stagione e tra le pagine c’è senso di colpa, eros, soldi, ambizione, frustrazione, bugie, borghesia, borghesia decadente, cultura ebraica, Roma, morte e il benedetto stile.
È il milieu piperniano, come spiega lui. Quel milieu che ora, oltre ai suoi romanzi, alla cattedra in Letteratura francese (è uno dei pochi realmente esperto di Proust), ai suoi articoli sul Corriere (“ho una vita culturale intensa”), verrà trasmesso anche alla scuola di scrittura Molly Bloom, insieme ad altri suoi colleghi.
Sosteneva Ettore Scola: “Appartengo a un mondo in cui il lettino dell’analista aveva sede dal barbiere”. Anche per lei?
È uno dei miei cineasti di riferimento, ha caratterizzato la mia formazione e a quel mondo guardo con interesse soprattutto quando affronto fatti della mia famiglia, quel milieu da jeunesse dorée ebraica anni Cinquanta o Sessanta; e poi il mondo di Scola era vicino a quello della mia famiglia: nonno paterno, tra guerra e dopoguerra, sotto falso nome a causa delle leggi razziali, credo abbia tentato la strada della produzione cinematografica.
Perché “credo”?
Il mio bisnonno, uomo straordinariamente austero, avvocato e melomane, addentro al mondo ebraico, a un certo punto prese da parte il figlio e mise un argine alle velleità con una battuta oggi non replicabile.
Quale?
“Basta con questo ambiente di froci e mignotte”.
C’è una frase simile in Di chi è la colpa.
Potrebbe, ma non lo ricordo.
Non rilegge i suoi libri?
No, l’idea la trovo orripilante. E poi rivedrei tutti gli errori.
Qual è il tipo di errore che teme maggiormente?
I passaggi troppo corrivi o troppo ampollosi.
Risultare ampolloso è un po’ la sua cifra ed è l’accusa che spesso le rivolgono.
Magari hanno ragione: se fossi solo un lettore, probabilmente mi giudicherei con altrettanta severità; (pausa) per rileggersi ci vuole una grande vanità.
Non è vanitoso?
Sì, ma non declinata in questa forma un po’ banale; non ho debolezze autocelebrative.
Uno può rileggersi anche per verificare come è mutata la scrittura.
Lo so già; (sorride) ora cado nell’enfatico, ma la scrittura è la sola forma di vita e di eros che conosco, per il resto la mia esistenza è tendente al mediocre come quasi tutti; (ci pensa) non ho vizi, non sono libertino…
Proprio alcun vizio?
Giusto la pipa, ma niente cocaina, alcol o adulteri; (pausa) se avessi un’amante non lo dichiarerei.
Neanche uno spinello.
L’altra sera ero al ristorante con la mia compagna e l’oste era palesemente alterato: tirava su con il naso. Ho pensato: non ho mai visto la cocaina, eppure vivo in un mondo di cocainomani.
Quindi?
L’unica mia forma di trasgressione sono la lettura e la scrittura, che in me interagiscono continuamente. Per questo ho il polso di ciò che ho realizzato. (resta in silenzio, poi torna indietro) Quel mondo utilizzava il barbiere come un’idea di vita basata su una convivialità un po’ cazzara, un’introspezione sempre ironica, caustica e pettegola; (cambia tono) rispetto a quel mondo ho spesso la sensazione di essere un curatore testamentario, uno che parla ex post.
Quanto ha preso alla maturità?
Sono uscito con 56: bene nel tema, malissimo nel compito di greco.
Tema su cosa?
Il Gelsomino notturno di Pascoli.
Se lo ricorda…
Perché fui fortunato: avevo letto un’interpretazione sessuale di quella poesia, con i “petali poco gualciti” che richiamavano le lenzuola post coitum e in commissione incontrai un professore particolarmente all’avanguardia, che apprezzò.
Barava a scuola?
Beh, sì.
Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio e lei in Di chi è la colpa raccontate la perdita tragica di genitori.
Ci ho pensato, e ci sono dei lati di Sorrentino nei quali mi identifico: una certa idea della vita, una forma di estetismo, una sobria disperazione, supporter molto comprensivi e detrattori altrettanto incazzosi.
L’accusa dei detrattori.
Così come ho difficoltà a rileggermi, ho anche difficoltà a seguire le critiche: per questo non vado sulle varie piattaforme online a controllare.
Mai?
Dopo il mio primo libro ho affrontato una specie di sbornia, definita dalla psichiatria “egosurfing”: l’ossessione nella ricerca del proprio nome sui motori di ricerca; vagavo su Internet come un alcolista, fino a cadere in una perversione dostoevskiana per cui scovi solo gli insulti.
Si ritiene tra i cinque migliori scrittori italiani?
Non so; uno dei mie miti, Vladimir Nabokov, quando gli chiesero “come si colloca nel panorama mondiale della letteratura?”, rispose: “Da quassù si gode un’ottima vista”. Io non posso dire altrettanto.
Ma dentro di sé…
Non ho il polso della situazione, non leggo tutto quello che esce; (cambia tono) sicuramente sono serio.
Anni fa ha dichiarato: “Ho un cassetto colmo di incipit”. Oggi a quanti siamo?
Li divido per categorie, perché rispondono a un modello preciso; (si muove) a parte pochissimi geni, siamo tutti epigoni, lavoriamo sul già fatto, la letteratura è un po’ estenuata.
L’incipit della sua vita.
Due e sono banali: “Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera” è bellissimo ma non spettacolare; assume tutta la sua bellezza nel momento in cui conosci la Recherche e ti rendi conto che è l’unico possibile.
Il secondo…
Quello de Le metamorfosi è il più bello.
Molti suoi colleghi citano Proust: quanti lo conoscono realmente?
(Sorride) Capisco chi ha una certa pratica e chi no.
E…
L’imbonitore, l’impostore utilizza quelle tre o quattro frasi rivelatrici o cade nella retorica di riflessioni banali legate al tempo, allo snobismo, all’aristocrazia, alle focaccine. Chi è dentro è un invasato, un tarantolato; ricorda un po’ il culto wagneriano: ho amici accademici che non hanno potuto emanciparsi.
Cosa intende?
Anni fa ero con un collega più grande di me, allora neo cinquantenne. A un certo punto mi fa partecipe delle sue intenzioni: “Il prossimo anno mi ammazzo”. Quindi a 51, la stessa età della morte di Proust; (pausa) avrei voluto spiegargli: se la tua preoccupazione è di non aver ancora scritto una Recherche, allora puoi tranquillamente spararti. Per fortuna è ancora vivo.
Si diverte mai a sgamare i falsi proustiani?
No, sono sensibile agli imbarazzi: non mi piace vedere qualcuno annaspare; allo stesso tempo amo molto mettere i miei personaggi in difficoltà, a piazzarli in situazioni difficili da sostenere. E poi non mi piace discutere, detesto litigare…
Una rissa?
No, però in un paio di occasioni ho preso dei ceffoni: una volta al liceo, l’altra allo Strega.
Un collega…
Mentre presentavamo il libro, alterato da alcol e psicofarmaci, mi ha assegnato un colpo.
La vittoria al Premio ha suscitato invidia?
Ne ho sentita di più dopo l’uscita del mio primo libro, e con un paradosso: l’invidia è uno dei miei temi letterari, un sentimento che tengo a investigare. Che conosco. E provo.
Cosa la scatena?
Una Ferrari, la giovinezza, la bellezza, l’eleganza, il denaro, uno scudetto. Tutto.
Sempre stato invidioso?
Con il tempo ho trovato il modo di esorcizzarla, di conviverci, di prenderne le distanze e soprattutto ho imparato a convertire l’invidia in ammirazione.
Rivolge complimenti ai suoi colleghi?
Sì.
Sempre sinceri?
Sono incline a una certa dose di ipocrisia; (pausa) se non mi piace taccio; (ci ripensa) da ragazzo un libro bello di un mio collega mi avrebbe ferito, mentre oggi mi fa piacere. E poi è raro…
Chi l’ha ferita?
Il cardellino di Donna Tartt l’ho amato moltissimo: dentro di me l’alto entusiasmo si è mescolato a un semplice “li mortacci tua”; mentre con il Colibrì di Sandro (Veronesi, ndr) fui entusiasta, come per l’ultimo di Emanuele Trevi, con il quale ha vinto lo Strega.
I premi quanto contano?
Confesso, senza snobismo, di non dar loro alcun valore: sono un gioco mondano, sociale, può dare soddisfazioni e un po’ di vanità. E basta.
Del suo ultimo libro Gad Lerner sul Fatto ha scritto: “È la prima volta che un autore stronca se stesso” per la frase: “Troppe parole forbite, ragazzo mio, e non abbastanza verità”.
Diversi lettori mi hanno segnalato la medesima cosa, ma prendono seriamente tutto, come se non ci fosse una prospettiva, una chiave ironica; (cambia tono) in questi ultimi tempi ogni aspetto viene considerato alla lettera, non esistono più iperboli o metafore.
Cos’altro le segnalano.
Mi arrivano lettere o email dove mi inchiodano o credono di inchiodarmi a eventuali manchevolezze che in realtà non sono mie ma del mio personaggio.
Nel suo ultimo libro ci sono piccole incongruenze.
Non importa, è un romanzo; quand’ero più giovane tendevo alle seghe mentali per dare una profonda plausibilità a tutta la costruzione; a un certo punto mi sono reso conto che la struttura romanzesca è simile al teatro di scena di un film western: uno vede la facciata e non si immagina che dietro non c’è nulla.
Ci sono dei limiti.
Flaubert era fissato: si documentava su tutto, poteva ammalarsi per un anacronismo. A me non interessa, però l’implausibilità deve essere al servizio del romanzo.
Invidia la prolificità di Simenon?
(Immediato) Sì. Aggiungo: pure le pipe, le donne e i soldi; molte donne erano meretrici.
Ha mai ceduto alla meretrice?
Neanche una volta e nel mio ambiente è come dichiarare di non aver bevuto mai un bicchiere d’acqua; (sorride) nel mio ambiente l’accappatoio bianco è il vestito più comune.
Si considera noioso?
(Chiude le braccia, cambia posizione sulla sedia). No (ci pensa); mi considera noioso? Brutta questa domanda.
Saverio Costanzo racconta: “Da ragazzo ero in difficoltà perché vedevo Luca Guadagnino scrivere analisi semiologiche e Piperno leggere Anna Karenina”.
Saverio ha un’idea di me non fedele alla realtà, ma è vicina alla trasfigurazione letteraria nata nei miei libri: mai stato un secchione e soprattutto avevo e ho gusti non sofisticati. Lui oggi è più sofisticato di me. Mentre io amo le cose dozzinali.
In pratica.
Amo il junk food, le serie tv, il cinema hollywoodiano.
I B-Movie?
No, sento lo snobismo dell’amante di cinema; l’altro giorno mi sono emozionato con l’ultimo Top Gun: lì c’è l’uomo che avrei voluto essere che va a letto con la donna che avrei voluto sposare (la Connelly, ndr).
Ha rivelato di sbirciare sui social.
Mi diverto; uno come me che sta un paio di giorni su una frase resta affascinato e turbato da quello che avviene in quegli spazi. E mi domando se il mio mondo abbia ancora un senso; (pausa) però non guardo i Vacchi o i Briatore con la bava alla bocca.
Ci andrebbe a cena?
Non mi piace cenare con chi non conosco e poi ho soggezione nei confronti delle celebrità.
Con chi le è capitato?
Anni fa Enrico Mentana mi ha presentato un libro: quando l’ho visto sono arrossito.
Piperno negli anni 60, in quale contesto letterario si sarebbe inserito?
Vengo assimilato a Bassani, Moravia e Parise; mentre come lettore pantagruelico mi riconosco in Manganelli, nel romanzo borghese-esistenzialista.
Le sarebbe piaciuto far parte di quel circolo?
Non sono un fan della società letteraria, non sarei stato a mio agio.
Lei chi è?
(Silenzio) Uno che finge bene.