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 2022  luglio 03 Domenica calendario

Biografia di Arturo Brachetti raccontata da lui stesso

Arturo Brachetti, uno degli artisti italiani più conosciuti al mondo, professione trasformista. E dunque si trasforma. Una volta si toglieva gli anni, poi ha smesso. «Sono nato nel 1957 e me ne vanto. L’importante è continuare a imparare. Mica posso mettermi il costume di Wonder Woman fino a 80 anni. O di Madonna. Cioè, lei magari lo farà, ma io non ho voglia». Così dal 13 giugno si è trasformato in «show teller», affabulatore e raccontatore di spettacoli, catapultato sul podcast Et voilà! La Belle Époque, prodotto da Storielibere.fm per la piattaforma Audible. È un viaggio alla scoperta di un’epoca leggendaria di grandi trasformazioni, e del suo cuore, Parigi: dà voce agli oggetti, ai luoghi simbolo e ai protagonisti che hanno inciso sul futuro e cambiato il vasto comparto del varietà, forma d’arte che è un capitolo importante della nostra storia individuale e collettiva. In 14 puntate di 50 minuti ciascuna Brachetti ci porta alla scoperta di un momento mitico del 900.
L’importante è continuare a imparare, dice: che cosa sta imparando ora?
«A cantare, per esempio. Ho sempre pensato di essere stonato. Quando canticchiavo in camerino, tutti mi zittivano o alzavano gli occhi al cielo. Poi sono andato da un maestro, è venuto fuori che invece sono intonato, e così posso interpretare i brani del cabaret. Tutto serve, canzoni, trasformazioni, racconti, è fascinazione teatrale. E a proposito di racconti, son contento di aver messo a frutto un’altra mia capacità: quella di narrare. Scegliendo la formula del podcast, è stimolante».
Cosa racconta?
«Racconto la Belle Époque, questa epoca di grande apertura, di grande fermento, abitata da personaggi meravigliosi, soprattutto a Parigi. Personaggi come Georges Méliès, Mata Hari, Mistinguett, la Bella Otero alle Folies Bergères, Fregoli, Josephine Baker, Maurice Chevalier. Ma sa che Josephine Baker ha inventato l’abbronzatura? Lei, una ragazza di colore, nata in Missouri, arriva a Parigi nel 1925 e la conquista. Cambia i canoni della bellezza: fino ad allora bisognava avere la pelle bianchissima, solo i contadini erano colorati, perché lavoravano sotto il sole. Lei impone l’avvenenza scura, scopre persino un liquido autoabbronzante. Porta i capelli corti, quello che si chiamerà taglio "alla garçonne". Non soltanto: si impegnò tantissimo per i diritti degli afroamericani. Quando tornava negli Stati Uniti, non poteva andare nei ristoranti dei bianchi, a Parigi dominava da Chez Maxim: lo trovava giustamente inconcepibile. E poi la Bella Otero».
Che faceva la Bella Otero?
«La prostituta di altissimo bordo. Quando si ritirò, a 46 anni, aveva accumulato un patrimonio di 40 milioni di dollari, che sarebbero 600 milioni di euro attuali. Poi se li spende tutti al Casinò di Montecarlo. Spende il doppio di quanto era costato costruire il Casinò. Una storia pazzesca».
Ma lei dove ha preso tutte queste notizie?
«Non certo, e non soltanto, da quello che si può trovare su internet. Ho la complicità di Jacques Pessis, del Figaro, decano dei giornalisti francesi che si occupano di spettacoli, uno che ha scritto 42 libri dedicati al teatro, agli attori, ai cantanti. Lui sa molte cose, le più nascoste. Per esempio che la Bella Otero, sempre quella di prima, morì di infarto in mutande sul bidè. Ho usato tante fonti, le più diverse, ma sempre legate alla mia esperienza. Non era esplicito il fatto che Fregoli fosse omosessuale, a me l’aveva detto Macario e se si leggono bene i documenti la notizia traspare. Ho conosciuto i nipoti di Meliès che mi hanno raccontato che cosa faceva il nonno, il "padre" degli effetti speciali. Ho toccato con le mie mani i passaporti di Mistinguett che si toglieva gli anni: quando è morta, a momenti era più giovane di quando era nata. Io tocco gli oggetti dei personaggi di cui parlo. Questo è importantissimo».
Certo, lei è un mago: e che cosa sente quando tocca questi oggetti?
«Li sento vivere. Ha collaborato con me Alessandro Barbaglia, che preparava il canovaccio, poi io rivedevo il tutto. Senza dimenticare la sonorizzazione, curata da Federico Bernocchi. Faccio un esempio. C’è il rumore di una camionetta. Io dico: senti, senti, si è fermata davanti a un portone, vediamo chi esce, guardiamo la donna. No, non quella, quella dietro: è Mata Hari. Poi esorto: forza, entriamo nella stanza. Oppure: attenzione, nascondiamoci, così seguiamo meglio. Ecco, mentre io parlo, si possono chiudere gli occhi, e immaginare».
L’ultima puntata è dedicata al Paradis Latin, dove lei ha debuttato. Com’era andata?
«Avevo vinto un concorso a Saint Vincent nel 1978, sono arrivato a Parigi nel ’79».
E lì è diventato famoso, molto prima che in Italia. Dispiaciuto?
«Ma no, le cose poi mi sono andate bene anche qui, e in tutto il mondo, non posso mica lamentarmi. Sono una statua di cera nei musei. Ho un medagliere da Guinness dei primati. Anzi, sono, nel Guinness dei primati».
È un po’ narciso?
«Come tutti i grandi timidi, quando sono uscito dalla timidezza, sì, sono diventato un po’ narciso».
E come è uscito dalla timidezza?
«Nato e cresciuto a Corio Canavese, ero un ragazzino magrolino, sfigatello: mi mandano in seminario a Lanzo. Mio papà avrebbe tanto voluto che facessi il prete. In realtà, il prete avrebbe voluto farlo lui. Comunque, dai Salesiani conosco don Silvio Mantelli, un grandissimo mago, e la mia vita cambia. Ho passato l’adolescenza a studiare, e grazie alla magia, alla possibilità di trasformarmi, mi sono liberato dalla timidezza. Con il narcisismo. Casa mia è un trionfo dei miei trionfi».
Com’è casa sua?
«Molto strana, piena di magie anche lei, niente è come sembra. Una produttrice di eventi mi ha detto che, se voglio arrotondare per la pensione, lei può organizzare delle visite guidate a pagamento, poche persone alla volta, a vedere cose che non ci sono, porte che si aprono al contrario, quadri che si animano; ma attenzione, offro pasticcini che non si mangiano».
Lei diceva che suo padre la voleva sacerdote: ma com’era suo padre?
«Un uomo tormentato. E sperava che facessi il prete perché così Don Bosco gli prenotava una poltrona in paradiso. Però sapeva fare tutto, era un grande bricoleur, e mi obbligava ad aiutarlo. A otto anni io cambiavo le prese della luce. Da lui ho imparato ad arrangiarmi sempre. Grazie a lui, e al fondamentale Circolo della Magia di Torino, ho elaborato il pensiero parallelo, ho capito che c’è sempre una soluzione che non ti aspetti. Per andare da A a C non devi passare necessariamente per B. Puoi fare il giro largo, prenderla da Z: cerchi una via per creare l’impossibile. Come se ci fosse una doppia realtà. Che non c’è, ma tu lo fai credere. È il grande principio dell’illusionismo».
Non esistono i poteri paranormali?
«Niente che non si possa riprodurre con i trucchi. Strategico è il rapporto con il pubblico: la magia di una donna che vola per la sala è un privilegio degli spettatori, crolla tutto se vai dietro le quinte e vedi i fili. La magia esiste perché è una costruzione mentale, è un portale immenso verso tutto quello che è trascendente. Non posso togliere alla signora che accende una candela a Santa Rita, per avere la grazia, la speranza che il suo gesto le risolva la situazione. Come la cartomante: se uno ci va, e si sente bene, ben venga».
Magia e disincanto?
«Disincanto? Realismo. Tutti hanno bisogno di una fede, di credere in qualcosa, e se non danno fastidio agli altri, va bene tutto quello che fa stare meglio».
Suo papà la voleva prete: e sua mamma?
«Mi voleva bene. Anzi, mi vuole bene. Il suo dna, e il fatto che sembri giovanissima, mi ha aiutato a mentire sulla mia età, come Mistinguett, fino all’altro ieri. Lei ha 86 anni, adesso va al mare, e la prima cosa che fa, tradizionalmente, è correre al luna park e farsi qualche giro sulla calcinculo. È incredibile».
Guarda la televisione?
«Solo le piattaforme digitali, la generalista no. Non è snobismo, è che non mi interessa tanto, ecco. D’altronde, anche la televisione mi ignora abbastanza. Indifferenza reciproca».
Ma l’avrà visto il personaggio-rivelazione dell’anno, Drusilla Foer?
«Sì, certo, e mi piace molto. Perché propone un linguaggio che sembrava dimenticato: ironico, culturalmente stimolante e, non ultimo, bypassa gli stereotipi di genere tanto discussi negli ultimi tempi».
E il talent di Rai2 "Voglio essere un mago"?
«Non ha fatto bene alla magia. Voyeurismo, competizione assurda».
Che rapporto ha con i social?
«Ottimo: anche perché me li seguono gli altri, un gruppo di ragazzi. Facebook, Instagram, Tik Tok. Io organizzo il materiale e loro postano all’ora giusta, al momento giusto. Un’arte. Sono convinto siano un mezzo di comunicazione fondamentale, ma non potrei fare tutto da solo, è un mestiere».
Infatti ci sono gli influencer che fanno solo quello: che ne pensa?
«Che adesso è un lavoro, e come tutti i lavori può essere fatto bene o fatto bene. Qualcuno reggerà, qualcuno no».
Prossimi impegni? Canta?
«Non canto, ma sto dove si canta. Cioè nel "Barbiere di Siviglia" che torna in scena a Salisburgo, in agosto. Cast stellare: Rosina è Cecilia Bartoli, non so se mi spiego, Nicola Alaimo è Figaro, Sandro Corbelli Don Bartolo, Edgardo Rocha Almaviva. Il regista Rolando Villazón ha immaginato questo: io sono un vecchio magazziniere che, negli Anni Trenta, trova in un angolo una vecchia pellicola, "Una noche a Sevilla", la proietta sul muro, e lì tutto si anima. I protagonisti diventano vivi, escono dalla finzione, io sono complice e vittima di questo mondo a parte. Di nuovo, la realtà parallela. Io non canto e nemmeno parlo, ma faccio tante gag, come Mr. Bean dentro un’opera».
Bella esperienza?
«Prova durissima. Gli esami non finiscono mai, aveva ragione Eduardo. In prova sono anche caduto e mi sono fatto male a una gamba. Ma poi tutto è andato bene. È l’adrenalina della corsa. Per me il palcoscenico è la Formula 1».
Ma che cosa succede, in fondo in fondo, su questi palcoscenici che ci accompagnano dai tempi di Sofocle?
«Succede che si può diventare super-eroi. Poi non lo siamo, ma al pubblico, dall’altra parte, piace crederlo, perché gli fa bene, gli migliora la vita. Questa è la grande magia».