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 2022  luglio 03 Domenica calendario

La deputata Augusta Montaruli parla dei genitori sordi

Le hanno scritto su Facebook: «Sei più ritardata di chi ti ha cresciuta»: l’originale è ancora più offensivo e lei lo sa bene, perché l’ha letto sul suo profilo Facebook, accanto ad una lunga sequela di male parole.
«Mi disarma la disinvoltura con cui, per colpire qualcuno, si usano termini legati alla disabilità. Io ho le spalle larghe, ma su qualcuno più fragile queste frasi possono produrre un assoluto sconforto che ti annienta», racconta Augusta Montaruli, 38 anni, di Torino, divorziata, avvocato penalista, dal 2018 deputata in Parlamento per Fratelli d’Italia. Attaccata sui social con tutto il repertorio più disgustoso di contumelie, dopo un intervento in Aula sul diritto di cittadinanza in cui sosteneva che «i bambini stranieri che ci guardano non sono contenti di vedere che lo ius scholae è portato avanti dagli stessi che regalano la droga per le strade». 
Un ragionamento forse non ben riuscito. 
«Sarebbe bene sentire tutto il discorso, non scegliere una frase a caso. Accetto le critiche, sono persino di stimolo, gli insulti però no. Sul web vale la legge del branco». 
I suoi genitori, Luigi e Margherita, entrambi sordomuti. 
«Non si dice sordomuti, soltanto sordi, perché parlano comunque una lingua, quella dei segni». 
Che famiglia è stata la sua? 
«Una bella famiglia. Io, mamma che faceva la bidella, papà che lavorava in banca, emigrati dalla Puglia, mia sorella Nicoletta che ha 8 anni meno di me, e la nonna paterna Augusta, da cui ho preso il nome. Donna gagliarda, un portento, è stata la mia seconda madre, le devo tanto. Con lei usavo la voce, con i miei i segni, è come avere due genitori che parlano due lingue diverse. Papà è morto a 57 anni, quando ne avevo soltanto 25. Infarto, era cardiopatico. Ho imparato prestissimo ad essere responsabile, indipendente». 
Quando? 
«A sei anni, nonna mi portò alle Poste di via Susa e mi presentò ad una signora dietro lo sportello. “Che occhi grandi che ha questa bambina!”. Imparai a compilare i bollettini e a pagare le bollette, diventò un compito mio». 
Così piccola e giudiziosa? 
«Per forza, chi altro poteva farlo? Papà se la sarebbe anche cavata a scrivere in stampatello, era figlio di insegnanti, aveva studiato di più, mamma, di famiglia contadina, no. E chi è che fece da interprete con il notaio per redigere l’atto di compravendita della nostra casa? Io, a dodici anni. Ricordo i nomi, le cifre, le rate del mutuo. Così al bar, dal medico, al telefono, ogni volta che serviva una traduzione. Persino a scuola, al colloquio con i professori, in pratica, se non avevo studiato, mi rimproveravo da sola. Il figlio di una persona sorda è il collegamento con un mondo che purtroppo non è ancora preparato ad ascoltarla». 
Se non altro non prendeva sgridate a casa. 
«Scherza? Ho ricevuto le mie belle ramanzine, i sordi comunque emettono suoni, se sono arrabbiati a volume altissimo, le nostre sono le case più rumorose del mondo. Mamma era severa, minacciava di mandarmi in collegio, come era toccato a lei. Qualche scapaccione è partito, una volta ha anche impugnato una ciabatta. Però...». 
Però? 
«Mi ha riempito di baci e di abbracci, non me lo dice con la voce, ma so che mi vuole bene, l’amore non ha parole, ciò che conta sono i gesti. Da piccola se le chiedevo: “Perché mi hai fatto nascere?”, rispondeva: “Perché così mi puoi aiutare”. Hanno aspettato otto anni prima di avere mia sorella. “Adesso puoi insegnarle quello che hai già imparato tu”. E l’ho fatto». 
E quando è diventata onorevole? 
«Si è preoccupata: “Non è che adesso vai a Roma e non ti vedo più? A me chi mi aiuta?” Sono sua figlia ma anche sua madre». 
Si è mai sentita diversa dagli altri? 
«Tutti quei doveri li vivevo come un peso, una scocciatura, però in fondo era normale. Ciascuno di noi è figlio di quel che vive, l’ho visto come un arricchimento e non mi sono mai considerata sfortunata, anzi, ho sempre sentito di avere un talento in più, è il resto del mondo che ti vede come se ti mancasse qualcosa. La diversità non è un disvalore, ma un dono, siamo tutti, a modo nostro, unici e irripetibili».