Corriere della Sera La Stampa, 3 luglio 2022
La Libia è di nuovo nel caos
Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera
Ha motivi scatenanti relativamente nuovi e però anche radici antiche l’ondata di proteste e manifestazioni violente che da venerdì scuote la Libia, addirittura riproponendo lo spettro minaccioso della guerra civile diffusa. «Vogliamo elettricità, basta con i tagli, non ne possiamo più!», gridano le folle arrabbia-te nelle piazze del Paese. A Tobruk due giorni fa hanno fatto irruzione nel parlamento e dato fuoco agli uffici. A Tripoli minacciano gli edifici pubblici assieme ai ministeri e la sede della Noc, la compagnia petrolifera nazionale. A Misurata, come a Bengasi e nei maggiori centri sulla costa, la gente ferma in coda ai benzinai vuoti esasperata dalle oltre 12 ore di blackout a oltre 40 gradi centigradi non teme più neppure la repressione muscolare delle milizie armate.
Ma la causa che ha fatto precipitare la protesta nasce dalla consapevolezza diffusa per cui in questo momento l’impasse della politica pare non avere vie d’uscita e dunque i disagi sono destinati a restare, senza soluzioni in vista. Tra i motivi principali restano il prevalere degli interessi tribali che frammentano la società libica, assieme all’incapacità dei premier dei due governi di Tripolitania e Cirenaica a trovare un accordo che garantisca la formazione di una coalizione unitaria e dunque la preparazione di nuove elezioni. Negli ultimi tempi nel Fezzan sta addirittura crescendo un movimento di protesta che vede alleati fanatici dell’Isis ed elementi dei vecchi circoli legati all’ex regime di Gheddafi. Il fallimento giovedì scorso dei colloqui di Ginevra mediati dall’Onu ha sottolineato l’impotenza della comunità internazionale e allo stesso tempo la mancanza di leader locali in grado di andare oltre gli interessi immediati di parte in nome del bene comune. Ad aggravare la situazione c’è adesso anche la volontà di Mosca di esacerbare la litigiosità interna per bloccare l’export di gas e petrolio verso l’Europa, che infatti stanno cadendo ai minimi storici del periodo della guerra del 2011. Tutti i pozzi della Cirenaica sono chiusi e quelli della Tripolitania appaiono a rischio.
Ieri il premier di Tripoli, Abdulhamid Dbaibah, è tornato a ribadire la necessità del voto il prima possibile. Ma persino il suo elettorato sa bene che si tratta di un paravento privo di qualsiasi concretezza. In realtà, le commissioni per la formulazione della legge elettorale sono bloccate ormai da anni. Non c’è intesa sulla eleggibilità di personaggi come lo stesso Dbaibah, oppure l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, e Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi ricercato per «crimini di guerra» dal Tribunale Internazionale dell’Aja.
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Francesca Mannocchi per La Stampa
Un gruppo di manifestanti ha assaltato e dato fuoco alla sede distaccata del ministero delle Finanze di Sebah, a Misurata i cittadini hanno assaltato la sede del consiglio Municipale, a Tripoli i gruppi armati fedeli al governo hanno sciolto le manifestazioni colpendo la gente con colpi di arma da fuoco, a Sirte invece la gente è scesa in piazza con le bandiere verdi, quelle gheddafiane. A qualche centinaio di chilometri, a Bengasi, nell’est del Paese, sono state date alle fiamme le immagini di suo figlio Saif al Islam Gheddafi. Da ultimo venerdì gruppi di manifestanti hanno preso d’assalto e incendiato la sede del parlamento della Cirenaica a Tobruk.
È la cronaca delle ultime settimane libiche, eventi che sembrano da un lato riportare indietro il Paese di dieci anni, dall’altro riportarlo - per l’ennesima volta dal 2014 - sull’orlo di un conflitto armato.
La storia del Paese insegna che le evoluzioni e i passi falsi della vita politica si legano al petrolio e che il petrolio si lega alle attività delle milizie armate. Gli eventi di questa estate libica seguono, purtroppo, lo stesso copione.
Venerdì il NOC, la National Oil Corporation libica, ha dichiarato lo stato di forza maggiore sulle esportazioni di petrolio dopo settimane di proteste generate dalla spaccatura nella classe politica libica su chi dovrebbe governare il Paese.
La contrapposizione, oggi, è tra Fathi Bashaga, il primo ministro nominato dal parlamento all’inizio di quest’anno, e il primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, nominato lo scorso anno attraverso un processo sostenuto dalle Nazioni Unite. Dbeibah, secondo il processo di pace inaugurato nel 2020, avrebbe dovuto svolgere il suo ruolo ad interim fino alle elezioni di dicembre che, però, non si sono mai tenute, e oggi, a processo di pace fallito, si rifiuta di cedere il potere. Così il Parlamento con sede nell’est ha affermato che il governo di unità provvisoria di Abdul Hamid Dbeibah fosse scaduto e ha nominato Fathi Bashagha per sostituirlo.
Il conflitto tra i due governi ha dato vita a intensi combattimenti tra le influenti milizie della parte occidentale del Paese, da una parte la Brigata Nawasi, fedele a Bashaga, dall’altra la Stability Support Force, che invece sostiene Abdul Hamid Dbeibah.
Ad assistere, una volta ancora, le Nazioni Unite che, dopo il fallimento del processo di pace di Ginevra del 2020, dopo il mancato accordo dell’inizio di giugno durante i colloqui tenuti al Cairo, giovedì scorso hanno affermato che le negoziazioni tra le fazioni rivali non riescono a sanare le differenze e le distanti visioni sul futuro del Paese.
Così, una volta ancora, la Libia resta spaccata a metà e ha due parlamenti. Un pezzo del Paese è sotto il controllo di Fathi Bashaga, sostenuto dal Parlamento con sede in Cirenaica, a Sirte, nell’est della Libia, un altro pezzo sotto il controllo di Dbeibah con sede a Tripoli.
In mezzo i cittadini e la ricchezza libica - il petrolio - minacciata dalle milizie che hanno bloccato pozzi e raffinerie.
Negli ultimi mesi le condizioni di vita dei libici sono peggiorate molto, così come è aumentata la frustrazione di un Paese che vive sul gas e sul petrolio e fa i conti con una cronica mancanza di carburante.
Dallo scorso aprile alcuni dei principali terminal petroliferi sono stati bloccati, e la National Oil Corporation ha contabilizzato perdite per oltre 3,5 miliardi di dollari. Il blocco aveva lo scopo di tagliare le principali entrate statali al primo ministro Dbeibah, che però si è di nuovo rifiutato di dimettersi.
Giovedì il presidente del NOC, Mustafa Sanalla, parlando alla stampa libica, ha detto di aver cercato in ogni modo di evitare di dichiarare lo stato di forza maggiore, ma le condizioni erano diventate insostenibili in tutto il Golfo di Sirte, nei terminali di Sidra, Ras Lanuf, oltre al campo Al-Feel, e Brega e Zueitina. A causa dei blocchi la National Oil Corportation non era più in grado di alimentare le «centrali elettriche di Zuetina, Bengasi e Sarir, a causa del collegamento tra produzione di greggio e gas dei giacimenti delle società Waha e Mellitah, che ha portato ad una mancanza di fornitura di gas naturale al gasdotto costiero». Significa niente petrolio e niente gas nelle raffinerie, niente esportazioni, e niente elettricità per i cittadini. Significa soprattutto che non ci sono entrate dalla vendita delle risorse energetiche da cui dipende l’intera economia libica. Con le rendite del petrolio vengono pagati gli stipendi dei lavoratori pubblici, finanziate le infrastrutture, i generatori di corrente usati dai cittadini e dagli ospedali, e i prezzi dei beni di prima necessità, come il pane. «Il petrolio è la linfa vitale dei libici - ha detto Mustafa Sanalla dopo aver dichiarato lo stato di forza maggiore - ed è usato come merce di scambio, questo è un peccato imperdonabile».
Non è la prima volta che accade, né è la prima volta che Sanalla denuncia che i pozzi e le raffinerie siamo sotto la costante minaccia delle milizie, i gruppi armati che da anni rendono la sicurezza delle infrastrutture un’arma di ricatto sul piano politico.
Le proteste delle ultime settimane hanno di nuovo paralizzato le esportazioni di petrolio, mentre il mercato è alle prese con la perdita della fornitura del petrolio russo a causa delle sanzioni occidentali. Secondo il NOC la produzione è «bruscamente diminuita» e le esportazioni giornaliere sono diminuite di 865.000 barili al giorno rispetto ai normali tassi di produzione, perdita a cui si aggiunge quella pari a 220 milioni di metri cubi di gas, necessari per alimentare la rete elettrica.
Senza petrolio non c’è elettricità, si è detto. E senza elettricità la Libia vive in uno stato di cronici blackout anche di 18 ore al giorno, mentre il dinaro libico si è svalutato del 300% in pochi anni.
La rabbia per le condizioni di vita e la sfiducia per i rappresentati politici è esplosa negli assalti alle sedi governative in tutto il Paese. Le immagini più drammatiche sono arrivate da Tobruk, sede di una delle due amministrazioni rivali della Libia, dove i manifestanti hanno preso d’assalto il parlamento e dato fuoco a una parte dell’edificio. Le prima immagini mostrano colonne di fumo che si alzano dal palazzo mentre i manifestanti bruciano pneumatici all’esterno gridando «vogliamo elettricità». Un altro video, diffuso ieri dal media libico al-Wasat, mostra un manifestante alla guida di un bulldozer che sfonda una delle recinzioni del Parlamento: alcuni manifestanti si fanno strada nell’edificio, mentre altri sventolano le bandiere verdi del regime di Gheddafi.
Ieri dall’altra parte del Paese, nella capitale Tripoli, le strade di mezza città erano chiuse, sbarrate dai mezzi corazzati delle milizie.
È troppo presto per dire se le manifestazioni di questi giorni siano il seme di una protesta più strutturata, ma non c’è dubbio che abbiamo dei denominatori comuni: la disperazione collettiva per la situazione economica e il ladrocinio delle risorse, la frustrazione per i mancati accordi politici, la richiesta di un cambiamento.
Soprattutto sono proteste guidate da giovani che assistono da dieci anni al fallimento delle promesse della rivoluzione del 2011.
La speranza per il prossimo futuro è che le istanze di queste proteste dell’Est, del Sud e dell’Ovest della Libia riescano a convergere e spronare la classe politica al cambiamento.
Il realismo dice però che è assai più probabile che queste manifestazioni siano il preludio della prossima guerra civile.