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 2022  luglio 02 Sabato calendario

Intervista a Paolo Maria Noseda


Conosco Paolo Maria Noseda come interprete di scrittori francesi e americani. Lui è la “voce” da cui prendono corpo i pensieri di autori stranieri che transitano aChe tempo che fa,il programma di Fabio Fazio. Una voce senza unvolto ha insieme qualcosa di anonimo e di inconfondibile. Di distante e di intimo. È nella natura dell’interprete consegnarsi a una zona indefinita dell’espressività, dove il massimo della effettualità (o della resa verbale) convive con il massimo di resistenza che una lingua produce nell’atto di essere tradotta in un’altra lingua. Penso a questo mentre avverto la fluidità con cui Noseda traduce Edouard Louis e poi Alexander Starritt.
Siamo a Terranuova Bracciolini. Mi aggiro in questo Festival che prende il nome di Moby Dick, a riprova che una balena con tutto il suo carico mitologico può vivere anche sulla terraferma. In un lembo della provincia aretina. Come emblema di una letteratura che aspira alla terrificante mitologia. Noseda ha anche arricchito con una prefazione militante un maestoso libro di fotografie dove si racconta una storia di abbracci e tenerezze maschili. Immagini che contrastano con la virilità che di solito si attribuisce all’uomo: «Loving è un libro strano, forse unico: una raccolta di foto dal 1850 al 1950. Proviene da una collezione messa insieme da Hugh Nini e Neal Treadwell. I soggetti, esclusivamente maschili, sono colti nelle loro tenerezze e abbracci. Penso che la fotografia risvegli i nostri sentimenti e non solo i ricordi», dice Noseda.
L’abbraccio a cosa ti fa pensare?
«Un abbraccio testimonia che non si può fare a meno l’uno dell’altra o dell’altro. Si può abbracciare con gioia e con dolore. Sentimenti che non hanno confini di età o censo. Un abbraccio c’è all’inizio quando ci si incontra e c’è alla fine quando ci si lascia. Sono l’alba e il tramonto delle nostre storie.
Ma l’abbraccio mi fa pensare anche al mio lavoro: provare ad accogliere in me la parola dell’altro».
Cosa vuol dire per te essere interprete?
«La cosa più ovvia che mi viene in mente è rispettare l’alterità. Occorre molta pazienza e intuito per riuscirci. La prima volta non sai chi affianchi, quali pregiudizi lo animano nell’immagine preventiva che qualcuno gli ha fornito del tuo paese, soprattutto di un paese come l’Italia. Che come sai è preda di stereotipi secolari».
Come si superano?
«Con il tempo, con la frequentazione e con il fatto che la figura dell’interprete può davvero smussare convinzioni sbagliate. Molti scrittori arrivano da noi senza sapere che esistono differenze colossali tra una piccola città e un’altra. A volte si sottopongono a un tour velocissimo, parlano del loro ultimo libro e non hanno il tempo per guardarsi intorno. Allora diventa facile criticare l’Italia come il Paese senza regole dove ci si arrangia e dove si vuole al contempo fare bella figura. Il massimo che ti concedono all’inizio è che abbiamo un grande passato, uno scarso presente, un improbabile futuro».
È l’immagine che forniamo a livello internazionale.
«Ci sono molti modi per correggerla. Nel mio piccolo ho visto spesso lo stupore di certi autori, ma anche manager, quando scoprono il nostro lato creativo. La duttile capacità di adattare le risposte a quesiti complicati. Le mie prime esperienze professionali sono state fatte in seno alla realtà industriale. Prima con Olivetti, quando ancora c’era il sogno che diventassimo la Silicon Valley e poi sappiamo come è andata. In seguito ho lavorato per la Pirelli con il vecchio Leopoldo. In entrambi i casi non potevo fare a meno di notare l’attenzione e il rispetto con cui l’industria italiana era vista da fuori. Industriali americani, tedeschi, francesi accoglievano con meraviglia certe nostre conquiste o progressi».
Il tuo amore o interesse per le lingue come è nato?
«Hanno contato molto le mie radici. Dal versante materno affondano nella Svizzera e nell’Austria. È il lato cattolico. Ricordo che la mamma evocava spesso un nostro avo che fu fatto santo. Dal lato paterno le origini sono spagnole e ungheresi con un ceppo sefardita. Questa mescolanza di culture credo che abbia contribuito in maniera determinante alla mia passione per le lingue. Però non immaginavo che sarebbe diventata una professione. Mi attraevano le scienze mediche».
Cosa ti ha fatto cambiare idea?
«La professione di medico mi avrebbe troppo coinvolto emotivamente. Al contempo cominciava a piacermi il mondo con le sue sfaccettature e diversità. Erano gli anni Settanta, un decennio strano. Fatto di incazzature politiche, di settarismi intollerabili ma anche di aperture verso realtà diverse. Il dono per le lingue ha fatto il resto. Dissi a mio padre che non avrei fatto il medico, ma l’interprete. Mi guardò come se non capisse e poi aggiunse: ma che lavoro è?».
Tuo padre di cosa si occupava?
«A vent’anni aveva aperto il primo ostello di Italia.
Poi fu sindaco di Domaso un piccolo paese sul lago di Como. Dopo la guerra vi fu nascosto, pare nella villa di Gianfranco Miglio, il carteggio tra Churchill e Mussolini».
Miglio il politologo e poi senatore e teorico della Lega?
«Proprio lui. Qualche anno prima che morisse rilasciò delle dichiarazioni sulla cui veridicità sono rimasti molti dubbi. Raccontò che nel 1945 Churchill si presentò nella villa paterna, armato di cavalletto e tavolozza con l’intenzione di dipingere alcuni scorci del lago. In realtà era lì per recuperare la borsa che conteneva il carteggio con il Duce.
Quello scambio di lettere, se mai è avvenuto, fu trafugato prima del suo arrivo».
Ti piace la storia?
«Mi piace sapere il contesto nel quale la persona che devo interpretare vive. Quale rapporto ha con il passato, cosa conosce del mondo in cui improvvisamente è calato. Una settimana prima che incontrassi Salman Rushdie lessi parecchie cose sulla storia di Firenze. Il comune aveva donato le chiavi della città a Rushdie per aver scritto un libro sul periodo mediceo. Insieme visitammo la Galleria degli Uffizi. Sentirmi preparato a quel compito arricchì me e mise totalmente a proprio agio Rushdie. Ricordo anche le visite caravaggesche fatte a Roma con la mia amica Susan Sontag».
Di solito chi sono i tuoi interlocutori?
«Manager, scrittori, alti prelati dall’età incalcolabile, politici, funzionari, attori, registi, cantanti. È un fritto misto».
Con chi ti trovi più in sintonia?
«Cerco di esserlo con tutti. Ma l’interesse personale va ovviamente a scrittori e cantanti. Sono diventato molto amico di Patti Smith. È una persona deliziosa e generosa. La prima volta che l’ho incontrata fu in occasione di un documentario su Fernanda Pivano.
Lei, in quanto legata alla Beat Generation, partecipò raccontando alcune cose del loro rapporto con Nanda. Poi, senza che fosse previsto in scaletta, cantò alcune sue canzoni. Patti vive a Manhattan nella zona di Downtown. Quando sono a New York passo a trovarla con un regalo. E a proposito di regali c’è un’altra piccola storia con Michael Cimino».
Il regista americano?
«Lui, certo. Venne in Italia per la presentazione a un festival di un suo film. Era una persona decisamente stravagante. Si presentò con un cappello da cowboy e dei vistosi occhiali che gli coprivano il volto glabro. In camerino ci furono le presentazioni e lui all’improvviso mi passò cappello e occhiali chiedendomi di indossarli. E poi aggiunse: facciamo che tu sei me e io te. Salimmo sul palco e travestito da Cimino dissi in inglese chi ero e che parlavo un perfetto italiano. E aggiunsi che malauguratamente il mio interprete si esprimeva solo in inglese. Fu una scenetta esilarante che divertì Cimino e il pubblico.
La sera a cena mi parlò del suo gusto per i travestimenti. Prima di partire gli regalai un paio di guanti cardinalizi che indossò immedesimandosi nella parte del grande prelato».
Capisci subito chi hai di fronte?
«Per quante informazioni puoi raccogliere c’è sempre la possibilità di un imprevisto. Una volta accompagnai Miles Davis da Londra a New York, dove avrebbe dovuto tenere un concerto. Eravamo sul Concorde. E vidi quest’uomo teso, incazzato, molesto con gli altri passeggeri. Forse tutto dipendeva da una serata burrascosa che aveva avuto. Fatto sta che non mi rivolse quasi mai la parola. Si limitava a blaterare e a insultare tutto e tutti. Non fu una traversata piacevole. Di solito mi diverto con chi ho di fronte. Ma per divertirti devi anche essere curioso. Achille Castiglioni, il grande designer, mi diceva Paolo senza la curiosità non si va da nessuna parte. Si è come un’anitra zoppa».
Oltre a divertirti trovi personaggi divertenti?
«Una sera dopo un incontro di lavoro restai a cena con Ken Follett e Erica Jong. Si mangia si beve, si chiacchiera. Follett confessa di essere orgoglioso che ogni suo libro scala le classifiche. Erica si fa una grande risata. Lo guarda e dice: io quando trovo un amante focoso sono orgogliosa di scalare ilmaterasso. Ecco, avere la battuta pronta, la parola adeguata al momento, mi diverte».
La parola è centrale nel tuo lavoro.
«Lo è, ma devi saperla soppesare con sensibilità e cautela. Soprattutto quando sono dei politici a pronunciarla. Devi sforzarti di leggere il sotto testo quando a parlare è, che so, Condoleezza Rice o il presidente Obama. Devi capire e riuscire a restituire le sfumature di un discorso, la passione, oltre che il senso. E devi al tempo stesso non essere una presenza ingombrante».
Nel senso di invadente?
«Devi conoscere chi hai accanto, saper leggere il labiale perché a volte dal movimento delle labbra capisci cosa sta dicendo, devi aver fatto scuola di dizione, devi sapere che se traduci dall’inglese, per una parola in quella lingua ne occorrono tre in italiano e la velocità ti può fregare. Devi in tutto questo riuscire a far risultare una conversazione difficile qualcosa di unico e di semplice. Una volta lachief editor Tina Brown, dopo una colazione di lavoro a New York, sottolineò quanto fosse stata importante la mia presenza-assenza. Ecco esserci facendo dimenticare che sei lì. C’è un colore della frase che io provo a restituire. Mai imporre o forzare, ma offrire. È la mia regola d’oro».
Proprio questo non apparire dell’interprete può essere frustrante.
«Mi fai venire in mente la lettera che Pennac scrisse ai suoi traduttori. Li ringraziava e li amava perchétradurre era come portare una parte della sua vita in un’altra parte del mondo. So di svolgere un ruolo che per quanto indispensabile non dovrà mai essere appariscente».
Hai a questo proposito scritto un libro “La voce degli altri”.
«La mia è una voce prestata, concessa, a volte regalata, più spesso venduta. È la voce ombra. Sono l’ombra di chi mi è accanto. Ciascuno di noi, come narra il racconto di Chamisso, non può vivere senza la propria ombra e direi senza l’ombra dell’altro.
L’ho imparato negli anni. È la discrezione che apre all’amicizia. Come è stato ad esempio con David Grossman. Il suo dolore, per la morte del figlio, è stato il mio. Ho avuto un fratello, promettente speranza del canottaggio, che a 22 anni è morto per overdose di eroina. Uri, il figlio di David, cadde sul fronte libanese nel 2006. Ho ammirato la forza di Grossman. La sua capacità di uscire da una tragedia personale per cercare di proporsi come messaggero di pace nella tragedia del conflitto di Israele con i territori palestinesi. In quel preciso momento come un interprete traduceva la lingua del dolore in quello della rinascita»..