Robinson, 2 luglio 2022
Una comunista degli anni 50
Quando i comunisti mangiavano i bambini, a Roma la bambina Elisabetta, una magrolina di 9 anni, i comunisti li avrebbe mangiati lei, d’amore. Loro avrebbero certamente preferito anche solo uno sguardo della sua mamma, una Compagna ovvio, però anomala, troppo bella e con i tacchi, fumatrice accanita di Nazionali, disubbidiente, sfrontata e irraggiungibile; le sue priorità, prima il Partito, poi l’Udi, l’Unione Donne Italiane, poi i lavoratori, poi l’innamorato, infine, giusto per tenerlo a bada, il marito da cui è separata. E prima di tutti, ma anche ultima, questa amatissima figliolina che in quegli anni di luminoso impegno politico, poteva essere pure un ingombro anche se prezioso, da sistemare qua o là, in ogni momento, possibilmente al sicuro.La piccola Elisabetta arrivata dal Veneto a Roma negli anni Cinquanta è in parte quel che Patrizia Carrano ricorda della sua infanzia anomala e felice, un tramite letterario per raccontare oltre la sua memoria, quel tempo così breve, i pochi anni del dopoguerra, di impegno e speranze, di generosità ed illusioni, di sogni e passioni, del comunismo delle meraviglie. E una Roma speciale, forse un abbaglio, quando la politica era ancora innocente e gli intellettuali, prima che si abbattesse su di loro quel forsennato narcisismo che di molti ne fa oggi melense marionette televisive, davvero ci credevano, davvero stavano dalla parte del popolo: si perdoni il cinismo mio, non di Carrano, forse perché il popolo non sapeva ancora come dire la sua, mancando allora quei social che oggi permettono di tutto, persino di sognare la Meloni, stregati da quegli occhioni rotondi che paiono quelli del lupo che si mangia Cappuccetto Rosso.Elisabetta, bimba buonissima innamorata di quella mamma sfuggente e incantatrice, ha un vita nomade che accetta con la consapevolezza che è giusto così, che la mamma abbia scelto l’errore, il peccato, il disonore, la bizzarria, di lasciare il marito, decisione che una donna non può permettersi, deprecato dalla Chiesa ma anche dal Pci, più moralista del Vaticano. Carrano ricorda i suoi genitori, sua madre, comunista anomala, assieme settaria e libertaria. Riuscì a farsi affidare dal partito l’incarico di occuparsi dell’Associazione Italia- Ungheria, anni dopo si occuperà dell’Associazione Italia- Cuba. Suo padre era di famiglia molto abbiente impoverita dalla guerra, portava meravigliosamente il frack e certi elegantissimi golf inglesi, aveva la passione per le auto ed è morto in un in incidente d’auto quando Patrizia aveva 15 anni. Non erano sposati, li univa la passione, li ha divisi la diversità raccontata nel romanzo.Nel romanzo, mamma e figlia non hanno ancora una casa, Elisabetta dorme dove capita e segue la mamma nei suoi impegni a Botteghe Oscure, alla Cgil, alla Federazione, all’Udi, al Comitato della pace, al ristorante con amici e innamorati, poi c’è dove vivono i baraccati di Campo Parioli, 450 famiglie senza fogne e nel fango, dove mamma va per il Partito ma con poca empatia, perché, dice, «non le piace il lavoro di base». Lì Elisabetta incontra isuoi amici, la bimba tubercolotica Cesira e l’adolescente ladro Straccio: il Campo verrà sgomberato, le baracche abbattute per costruirvi il Villaggio Olimpico 1960.Ma non si costruisce un romanzo solo con i propri ricordi infantili: Carrano si è dedicata a ricerche d’epoca e si è servita anche della sua esperienza di giornalista aNoi Donne che negli anni ’ 50 affrontava i temi pericolosi della condizione femminile però come li vedeva il Partito, cioè strettamente legata a quella dei maschi lavoratori, con cui solidarizzare e mai competere. Ovunque vadano, la madre scompare dietro una porta dove si sta progettando la nuova Italia, ed Elisabetta, bambina giudiziosa e paziente resta sola in un corridoio, una mensa, un giardino: dovunque sia c’è un gran viavai di persone a lei ( e a Patrizia bambina) sconosciute, però di quelle giuste, che fanno parte della storia, Emanuele Macaluso e Saverio Tutino, Felice e Viviana Chilanti, Mario Mafai e Antonietta Raphael e anche lo scostante Vincenzo Cardarelli. In attesa del paradiso in Italia «alcuni dei trepidi e commossi viaggiatori che per una intera vita hanno aspettato di visitare on occhi ingenui e abbacinati la terra del comunismo reale si sono radunati in sezione per brindare alla loro indimenticabile avventura politica ed emotiva...». Poi si sa, arrivano quei giorni del febbraio ’ 56 e Roma si paralizza in una nevicata mai vista, si scia a Villa Borghese; e la patria del comunismo, l’adorata Urss, in ottobre invade l’Ungheria per stroncare la rivolta antisovietica e deporre il per due volte primo ministro, Imre Nagy, arrestato e poi impiccato nel giugno 1958.Il romanzo racconta i primi dubbi, le prime delusioni che porteranno allo sgretolarsi dolente della fede, del sogno comunista degli italiani, attraverso i pensieri della bambina Elisabetta: «… Perché lamamma fa la faccia storta quando racconta di un regista tesserato da sempre appena rientrato dall’Urss con due valigie piene di icone ottenute dai contadini in cambio di qualche pacchetto di sigarette?... Perché Saverio Tutino racconta di sentirsi messo da parte e di sognare altri incarichi nei paesi emergenti, ben lontano da Botteghe Oscure? Perché è orribile che gli americani abbiano la bomba atomica ed è bene che ce l’abbia l’Urss?...».La magrolina Elisabetta diventò la bellissima ragazza Patrizia, sposa a 17 anni, dieci anni assieme al regista Nanni Loy conosciuto intervistandolo sulle cooperative di produzione cinematografica, roba di sinistra, a 19 anni ha iniziato a scrivere per Noi Donne, ha scritto una ventina di saggi e romanzi anche storici, è una bella signora in età sempre ridente come a vent’anni.La bambina che mangiava i comunisti a noi vecchi un po’ commuove perché anche noi eravamo certi di un mondo migliore, non solo sovietico, ai patiti del professor Orsini spiacerà sapere che era un’abitudine sovietica e ora russa aggredire i disubbidienti, e ai lettori giovani farà scoprire che «quella idea di fondo era bella e generosa: “compagno” deriva da “Cum Panis” che significa mangiare lo stesso pane. Ora per ragioni storiche mangiamo soli anche se siamo in compagnia».