La Lettura, 2 luglio 2022
Intervista a Yann Tiersen
L’album 11 5 18 2 5 18 e le singole canzoni, tutte strumentali tranne l’ultima 13 1 18 25 (6 5 1 20. 17 21 9 14 17 21 9 19), hanno titoli in cifre, scelta che dice qualcosa dell’alfabeto sonoro del dodicesimo disco in studio di Yann Tiersen (autore anche di 12 colonne sonore, tra le quali quella del Favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet, oltre vent’anni fa). A pochi mesi dal precedente Kerber, il cinquantaduenne musicista bretone completa la svolta elettronica. In collegamento zoom da Brooklyn qualche ora prima del concerto, Tiersen parla del ritorno alla musica dal vivo, di una vita tra tournée mondiale e rifugio in Bretagna, e del perché il pianoforte – ormai totalmente assente sull’album e in scena – sia «uno strumento barbaro».
La tournée nordamericana sta finendo, dopo i concerti in Messico, Canada anglofono, Québec, Stati Uniti. La aspettano l’Italia e l’Europa. Quali sono state le reazioni del pubblico finora?
«Molto ricettivo, ne sono felice. Non riuscirei a fare differenze tra i vari Paesi. Ogni sera è diversa, ogni concerto è diverso. Ma in generale mi piace sempre di più suonare dal vivo, e devo dire che mi mancava, per colpa della pausa forzata provocata dal Covid».
Quali strumenti porta sul palco? Il set è completamente elettronico?
«Sì, completamente. Solo strumenti elettronici, come sull’album. Avevo voglia di abbandonare gli strumenti acustici e di dedicarmi solo all’elettronica, è una scelta che mi ha liberato. Ancora di più nei concerti, dove in certi pezzi c’è una parte di improvvisazione».
Quindi niente piano, per esempio.
«Niente pianoforte. Il fatto è che mi stufo un po’ quando suono il piano, mi metto a pensare ad altro, ho cominciato a trovare questa cosa non tanto onesta nei confronti del pubblico, e proprio nel momento in cui i concerti mi divertono di più. Quindi ho preferito rinunciare al piano, e anche agli altri strumenti acustici».
Interessante il rapporto difficile con il piano. Come mai si stufa a suonarlo?
«Ogni album è diverso, nel 2016 ho registrato un disco di piano solo, Eusa, ma tutto sommato è stata un’eccezione nella mia carriera e poi si cambia, si va avanti. C’è un bellissimo documentario su Ryuichi Sakamoto, si intitola Coda, nel quale a un certo punto parla di un pianoforte che è stato travolto e distrutto dallo tsunami. Adoro quello che dice, mi pare di capirlo perfettamente: sostiene che quel pianoforte in realtà non sia distrutto, anzi abbia recuperato la sua forma originaria. Il pianoforte è uno strumento barbaro, sono forze fenomenali che si sprigionano su un pezzo di legno, è uno strumento molto occidentale, molto pretenzioso. Certo è uno strumento completo, affascinante, ma è anche un po’ una prigione, non ci si possono poi fare tante cose, è uno strumento che rappresenta bene l’antropocentrismo».
L’ultimo album «11 5 18 2 5 18» porta alle estreme conseguenze un lavoro con gli strumenti elettronici già cominciato con il precedente «Kerber».
«Sì, ho suonato Kerber una volta a Brest al festival di musica elettronica Astropolis, poi ho preparato un altro set per il festival Superbooth di Berlino, e ho usato e rilavorato i sample di Kerber. Questo nuovo album è nato così, è una riappropriazione digitale di pezzi che esistevano già, ma che sono diventati completamente un’altra cosa».
I titoli a che cosa corrispondono?
«Sono la traduzione in cifre di parole».
Il precedente «Kerber» aveva titoli in lingua bretone.
«Esatto. Questa è la traduzione in cifre. Anche Kerber era un album di musica elettronica, ma si vedeva meno».
Che gli strumenti siano acustici o elettronici, le atmosfere sono riconoscibili, la musica non è affatto fredda...
«Sono sempre io a fare musica, mi evolvo ma è pur sempre la mia creatività. La musica elettronica mi libera molto e la trovo paradossalmente organica, vicina alla natura. Ho sempre cercato di restare padrone della composizione e anche di non lasciare che idee come l’ispirazione o il luogo di creazione prendessero il sopravvento, sono cose alle quali non credo. Penso che la musica sia qualcosa di astratto. Ci si può esprimere con la musica ma credo che abbia più a che fare con la trance e la meditazione, non mi piace mettere troppa cerebralità nella musica. L’elettronica mi permette di andare molto più direttamente a quel che voglio esprimere, è una specie di estensione del cervello e dei nervi».
Accanto alla scelta elettronica, i suoi pezzi sono più lunghi che nel passato.
«È vero, le forme più lunghe oggi mi interessano di più. Forse perché i mezzi cominciano con atmosfere ambientali e c’è bisogno di tempo perché il ritmo si inserisca e si sviluppi».
Anche «11 5 18 2 5 18» è stato registrato nell’isola di Ouessant, al largo della Bretagna. Perché questo luogo è così importante per lei?
«È il solo luogo dove abito, dove scrivo e registro. C’è il mio studio di registrazione e ho una grande fortuna di potere vivere in un luogo così selvaggio e naturale. È il posto dove mi sento meglio, e questo aiuta molto».
L’isola di Ouessant è un luogo isolato e poco popolato, nel mar Celtico, al largo del Finistère che è la punta più lontana della Bretagna. Una vita molto diversa da concerti alberghi e aeroporti delle tournée.
«È così, è un luogo straordinario. E io, come dicevo, sto apprezzando sempre di più i concerti, però penso allo stesso tempo che il modo tradizionale di fare le tournée appartiene ormai al passato. Mi piacerebbe trovare un altro modo per fare spettacoli dal vivo, un modo più lento, più lungo, non come adesso, saltando da città in città. Penso che il futuro del mondo passi anche attraverso una riappropriazione delle campagne, è lì che si producono gli alimenti, è una cosa importante. Mi piacerebbe fare tournée un po’ più miste, adesso sono completamente tagliato fuori dalla natura selvaggia che invece è il mio habitat naturale, quindi talvolta è un po’ complicato».
Un altro pezzo importante della sua carriera e della sua vita è, immaginiamo, la casa discografica, la mitica Mute Records fondata da Daniel Miller nel 1978, l’etichetta di Depeche Mode, Can, Nick Cave, New Order... Qual è il suo rapporto con Miller?
«Sono completamente indipendente dal punto di vista creativo e, al tempo stesso, per me la Mute è una famiglia, da dieci anni ormai. Daniel è venuto a trovarmi a Ouessant, abbiamo suonato assieme per un weekend, parliamo la stessa lingua. È una casa discografica fantastica, ho appena incontrato una loro équipe qui a New York, mi hanno dato dei dischi da ascoltare ed ero davvero contento. Sono persone davvero appassionate, sono felice di lavorare con loro».
Le vengono in mente altri esempi di etichette così importanti?
«In realtà penso che viviamo in un’epoca molto interessante e dinamica da un punto di vista musicale. Ci sono diverse etichette che fanno belle cose».
Per esempio?
«Adoro l’etichetta di musica elettronica Cpu Records (fondata a Sheffield nel 2012 da Chris Smith, ndr)».
Un album ascoltato di recente?
«Mi è piaciuto molto Pripyat di Marina Herlop».
La sua carriera è fatta anche di tante collaborazioni con artisti anche molto diversi tra loro, dal francese Miossec a Neil Hannon di The Divine Comedy a Elisabeth Frazer dei Cocteau Twins. Che cosa le piace delle collaborazioni?
«Lo trovo naturale, è una risposta al fatto che lavoro tutto il tempo quasi completamente da solo. Le collaborazioni con persone che stimo mi servono per uscire dalla dimensione abituale, che è un po’ solitaria».
L’ultima collaborazione è con sua moglie, nell’ultima canzone dell’album, che è l’unica a non essere strumentale perché contiene appunto la voce di Emilie Quinquis.
«Sì, è una collaborazione con il suo progetto Quinquis. Emilie mi raggiungerà e si esibirà nella parte europea del tour».
Dopo due album in pochi mesi, ha già un nuovo progetto?
«Riguarda in effetti le collaborazioni, mi piacerebbe riprenderle e dedicare loro del tempo. Sto pensando a una forma di laboratorio con altri artisti, a Ouessant ma anche altrove. Mi piacerebbe riprendere questo tema».
E quanto all’evoluzione della musica? Ogni album è diverso, diceva, ma se li riguarda adesso nel loro insieme individua una tendenza, qualcosa che si svilupperà anche nel prossimo?
«Credo che continuerò a sviluppare questa idea di fare pezzi più lunghi, che hanno bisogno di tempo per articolarsi. Ogni progetto ha in sé quello successivo, ogni album è diverso ma è anche una continuazione del precedente».