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 2022  luglio 02 Sabato calendario

Una lunga intervista a Sylvester Stallone

«Scordatevelo! Io dal gobbo non leggo». Al lancio internazionale della piattaforma di streaming Paramount+, a Londra, dove presenta la sua prima serie, Tulsa King (negli Stati Uniti sarà trasmessa a novembre, in Italia entro l’anno), Sylvester Stallone, 76 anni in questi giorni, ruba la scena a tutti, parlando a braccio per quasi venti minuti e dando una lezione di professionalità a tanti giovani colleghi spesso terrorizzati dall’aprir bocca senza prima aver verificato con l’ufficio stampa, l’avvocato, magari anche lo stylist. Il giorno dopo, rispondendo alle domande de «la Lettura», l’interprete di due figure leggendarie della storia del cinema (Rocky Balboa e John Rambo), icona degli anni Settanta e Ottanta, riflette sui modelli di mascolinità odierni, e sulla crisi dell’eroe.
L’idea di chi sia una persona di spettacolo è cambiata moltissimo rispetto a quarant’anni fa.
«Vero. I fondamentali, però, sono gli stessi. Ogni attore recita due volte. La prima quando gira il film e l’altra quando deve venderlo. Devi convincere la gente a spendere dei soldi, a scegliere, tra tanti prodotti, proprio il tuo. Devi saperci fare. La gente ha visto tutto, è anestetizzata: la capacità di attenzione è ai minimi. Va detto anche che ai miei tempi non c’era tutta questa concorrenza. Oggi è tutto ipercompetitivo, ipercostoso. Con il budget di un solo film Marvel potresti fare 300 Rocky».
Che cosa vuol dire per un mito del grande schermo mettersi a fare tv a 75 anni?
«Sono stato così fortunato, in questo mestiere, da aver fatto praticamente tutto. Ho visto l’intero sistema cambiare due o tre volte, dalle grandi produzioni hollywoodiane ai piccoli film indipendenti, fino all’animazione digitale. Qualche anno fa, senza neanche tanti drammi, avevo pensato: “Ok, Sly. È finita”. Mi restava, però, un rimpianto: non aver mai interpretato un gangster. Ho sempre voluto fare il gangster, avevo iniziato così nel cinema, piccoli ruoli da piccolo criminale. Ma forse per via di Rocky e Rambo, nessuno voleva darmi una chance. “Non saresti credibile”, dicevano. Finché non ho incontrato Taylor Sheridan».
Lo sceneggiatore, candidato all’Oscar per il neo-western «Hell or High Water» (2016), firma della serie «Yellowstone», con Kevin Costner, e ora anche di «Tulsa King».
«Sia lui che le mie figlie, appassionati di cavalli, praticavano barrel racing, la corsa dei barili. Gli proposi di scrivere il nuovo Rambo, disse che aveva altro da fare. Anni dopo, eccoci qui. In Tulsa King interpreto un gangster newyorkese, Dwight Manfredi, detto “Il generale”, uscito di prigione dopo 25 anni e subito esiliato dal suo capo in Oklahoma a dirigere un’operazione criminale. La tv è una sfida. È come girare tanti film di seguito senza interruzione: un gran lavoro. Poi, certo, anche lì c’è un sacco di robaccia. Una serie dà a uno sceneggiatore la possibilità di espandere una scena, un personaggio. Se lo fa bene, il risultato può essere geniale, altrimenti è un disastro».
Oggi la figura dell’eroe è in crisi. Che cosa vuol dire per lei, che ha interpretato Rocky e Rambo, confrontarsi, culturalmente ed esteticamente, con gli eroi di oggi? Che cosa è cambiato?
«Tutto. Non voglio insultare nessuno ma abbiamo esagerato. Dobbiamo tornare indietro, recuperare il mito. Ho sempre cercato di interpretare personaggi mitologici. Non supereroi ma eroi normali, in carne e ossa. Rocky è un personaggio di finzione ma se fosse esistito ai tempi di Omero, lui ne avrebbe scritto. Si deve smettere di inseguire i pupazzetti d’azione, le avventure nello spazio…».
Anche se la fantascienza, quando viene fatta bene, racconta moltissimo di noi.
«Vero, ma non dobbiamo dimenticare che viviamo sulla Terra. A un certo punto dobbiamo tornarci. Il fatto è che inseguendo i supereroi abbiamo perso gli eroi. Ne parlo spesso con registi e produttori. Mi dicono: “A nessuno interessa più l’eroe normale”. Non so se sia la politica o il momento storico, ma io direi invece che oggi più che mai avremmo bisogno di eroi normali. E credo che torneranno. Anzi, sono già tornati, vedi il successo di Yellowstone, dove non mi dispiacerebbe fare un cameo, e del prequel 1883. Da ragazzo guardavo sempre i western. Allora ne davano almeno una ventina. Poi sono diventati dieci, poi cinque, poi zero. Perché il genere era passato di moda. C’era bisogno di western. Non quello dei cowboy stereotipati ma il racconto di un’America primordiale dove tutti erano duri, uomini e donne, perché la vita era durissima per tutti. Anche l’idea dell’uomo contro la natura, per esempio, oggi è attualissima. E certo, è sempre meglio avere un eroe imperfetto e riluttante, perché gli eroi sono così. Dico sempre che Rocky, senza il personaggio di Adriana, non esisterebbe, che sarebbe solo uno stupido film sul pugilato. Grazie a lei, diventa epico. Rocky vuol diventare un uomo migliore per Adriana. “Voglio diventare una persona migliore per te”: chi non vorrebbe sentirselo dire? Poi, certo, anche oggi ci sono i body builder ma c’è una vanità che noi non avevamo. Allora eravamo solo eroi, oggi gli attori si credono supereroi. Arnold (Schwarzenegger, ndr) è stato rimpiazzato da Dwayne Johnson, in arte The Rock, e come lui anch’io sono stato rimpiazzato. Ma The Rock non è Arnold, è tutta un’altra cosa».
Com’è cambiato il suo approccio al lavoro?
«Ho una gran voglia di fare, ma alla mia età guardo a qualsiasi produzione come il mio ultimo colpo in canna. Non è sempre stato così. Negli anni Ottanta credevo di essere immortale, che sarei stato famoso per sempre. Così non ho prestato molta attenzione ai progetti che sceglievo, a quello che facevo. In qualsiasi momento avevo film da girare per almeno i due anni successivi, era come riempire delle caselle. Così non badavo molto al mestiere, alla recitazione. Col tempo ho capito, col tempo impari, diventi più saggio. Sarai più lento, forse, dimenticherai qualcosa, ma avrai sviluppato l’intelligenza emotiva, la dignità, la serietà, l’autorità, quello che chiamiamo gravitas. Guardi la mia faccia: c’è una vita sul mio volto, e viene fuori quando recito. Il mio vissuto ha un ruolo nei miei ruoli».
Il suo più grande rimpianto?
Ride: «Quanto tempo ha? Gliene dirò uno: non aver mai incontrato Chaplin. A casa mia, su una parete, c’è un biglietto. Dice: “Gentile signor Stallone, voglio congratularmi con lei per le sue due nomination agli Oscar per Rocky”. Firmato: Charlie Chaplin. Era il ’77 e solo altri due attori nella storia del cinema erano stati candidati all’Oscar sia per la miglior sceneggiatura sia per il miglior attore: Orson Welles per Quarto potere e Chaplin stesso per Il grande dittatore. Insomma, era un big deal, una cosa grossa. Ma non cercai d’incontrarlo. Ero uno stupido, pensavo ci sarebbe stato tempo. Invece sei mesi dopo Chaplin era morto. Quanto avrei potuto imparare da lui. Quando hai trent’anni credi di sapere tutto, invece non sai niente. Poi un giorno arrivi sul set e c’è un tizio che fa questo mestiere da cinquant’anni: John Huston, Paul Newman… E improvvisamente ti rendi conto di quanto poco tu sappia. Non è solo il talento: tutti hanno talento. È l’esperienza».
Anche gli eroi possono diventare scomodi. Rocky lo è stato per lei.
«Era ingombrante, non lo sopportavo più. Non era solo il fatto che mi mettesse in ombra, ma avendolo creato io stesso, ero come intrappolato dalla mia stessa creazione. Tutti volevano Rocky, nessuno Stallone. Ero una star planetaria ma nessuno sapeva il mio nome. Dopo il successo dei miei film venni invitato più volte alla Casa Bianca, dove conobbi Jimmy Carter, Ronald Reagan. Entrambi, stringendomi la mano, mi dissero: “Ciao, Rocky”. Per la stampa ero una specie di scimmione: uno che tirava pugni e conosceva solo la strada. Pensavano che Rocky fosse l’unico ruolo che potessi interpretare perché credevano che io fossi Rocky. E hai voglia a dirgli che non ero un personaggio, che di Rocky avevo scritto la sceneggiatura. Niente da fare».
Quella della nascita di «Rocky» è una storia memorabile. Ce la racconta ancora?
«Accadde dopo un match di pugilato tra Chuck Wepner e Muhammad Ali. Ora, Wepner era uno su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Anzi, di scommesse proprio non se ne accettavano, lo davano due milioni a uno. Non sembrava neanche un pugile, era goffo, incapace. Era chiaro per tutti, quella sera, tra la folla assetata di sangue, che il suo più grande contributo al pugilato sarebbe stato quanto male gli avrebbe fatto Ali, quante ne avrebbe prese. L’idea che avrebbe potuto addirittura vincere non passava per la testa a nessuno. E all’inizio il match andò proprio così. Poi improvvisamente accadde qualcosa di incredibile: Wepner, dal nulla, mandò al tappeto Ali. Era come se un dio avesse guidato la sua mano. La folla prese a tifare per lui: improvvisamente era qualcuno in cui tutti potevano e volevano identificarsi. A chi non piacerebbe fare l’impossibile, l’impresa, anche per un solo momento? E io guardavo tutto questo e ho capito che era una metafora, che non stavo guardando un match di pugilato. Rocky non è mai stato un film sulla boxe ma sul trionfo personale, umano. Sul riscatto».
Scrisse la sceneggiatura in tre giorni e mezzo.
«Sì, anche se non subito, come è stato invece raccontato. Ero ossessionato dalle storie di riscatto, e a un certo punto mi tornò in mente Wepner. Perché non raccontare di un perdente, uno cui nessuno darebbe una chance? Mi misi subito al lavoro. Mia moglie batteva a macchina quello che scrivevo. Ero giovane, sentivo di avere un’occasione, avevo un sacco di energia. Ero cresciuto nel quartiere di Hell’s Kitchen, sapevo che cosa volesse dire essere un ragazzo di strada. Così scrissi questa storia su un povero pugile italoamericano. A dirla tutta, il 90% della sceneggiatura era da buttare, dovetti riscriverla almeno 25 volte, ma l’idea c’era, e questo bastava. Il budget era di soli 900 mila dollari, e dovemmo girare tutto in 28 giorni perché neanche i produttori credevano che il film avrebbe avuto successo, senza una star agganciata al progetto. E invece».
Oggi che cosa rappresenta «Rocky» per lei?
«Sono convinto d’aver prodotto il mio lavoro migliore quando non avevo un soldo. Quando hai successo e ti coprono di soldi perdi la determinazione, la fame che t’aveva portato lì. Rocky è nato perché avevo fame. Quando devi cambiarti in un furgone è tutto più viscerale. Non stai a preoccuparti del trucco o della luce. È solo quando sei in difficoltà, hai paura e sei aggrappato alla vita per un’unghia che capisci, uomo o donna che tu sia, di che pasta sei fatto. È solo allora che conquisti l’unico rispetto che importi davvero: il tuo, per te stesso. E questa è stata la mia vita, il mio percorso. Il mio riscatto».