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 2022  luglio 02 Sabato calendario

La democrazia secondo Xi

Sui palazzi le bandiere della Repubblica Popolare Cinese e di Hong Kong. Le prime più grandi delle seconde. Deve essere chiaro chi comanda in quella che la Cina presenta al mondo come «vera democrazia»: Pechino, dunque il Partito comunista. Dunque Xi Jinping, giunto in città per le celebrazioni del 25esimo anniversario della restituzione dell’ex colonia da parte del Regno Unito. Dopo aver criticato la «mentalità da Guerra fredda» della Nato e delle democrazie liberali, il presidente cinese passa all’elogio del modello cinese che ha ormai intriso completamente la vita di Hong Kong, costretta a inserirsi negli ingranaggi della Repubblica Popolare dopo che è stata per lungo tempo un hub finanziario globale e un ponte tra la Cina e l’Occidente.
Ad accogliere Xi nessuna folla oceanica festante ma nessuna protesta, anche perché l’opposizione è stata completamente sradicata dopo le proteste di massa del 2019. Ad applaudire il suo discorso ammessi circa 1300 invitati selezionati tra i veri «patrioti», gli unici che possono candidarsi a guidare il consiglio legislativo dopo la riforma elettorale dello scorso anno. Il presidente non si è comunque fidato a trascorrere la notte a Hong Kong e ha scelto di tornare a dormire nella vicina metropoli di Shenzhen. Tanto che ieri ha mancato la tradizionale cerimonia dell’alzabandiera ed è arrivato insieme alla moglie Peng Liyuan solo in tempo per il giuramento del nuovo capo dell’esecutivo locale, John Lee, al quale non ha stretto la mano al termine limitandosi a una posa per le foto di rito in rispetto del distanziamento sociale.
Xi non ha voluto correre rischi dal punto di vista sanitario. D’altronde a tutti i selezionatissimi ospiti della cerimonia, comprese le figure apicali della vita politica locale, è stata imposta una quarantena di alcuni giorni. Durante la visita sono stati vietati i droni in tutta la città, mentre lo spazio aereo sopra il Convention Center è diventato una no fly-zone. Intorno all’area della cerimonia sono state erette barricate in cerchi concentrici, con i varchi sorvegliati da agenti armati. Ai passanti sono state distribuite invece copie gratuite del China Daily, uno dei media di Stato di Pechino, che solitamente viene venduto a un prezzo di poco superiore all’euro. In prima pagina, ovviamente, i festeggiamenti per l’anniversario dell’handover e le parole di Xi secondo cui la città è «rinata dalle ceneri».
Il «nuovo timoniere», che al XX Congresso del Partito comunista del prossimo autunno aspetta di ricevere un terzo storico mandato, ha usato parole trionfali: «La vera democrazia è iniziata a Hong Kong 25 anni fa». E il modello «un Paese, due sistemi», dice Xi, «soddisfa gli interessi fondamentali del Paese e del popolo cinese. Non c’è alcuna ragione di cambiare un sistema così buono» che «deve essere perseguito nel lungo termine». Si tratta di quel modello promesso dall’allora leader Deng Xiaoping a Margaret Thatcher che avrebbe dovuto garantire un’ampia autonomia all’ex colonia fino almeno al 2047, a 50 anni dall’handover. Un modello che però secondo molti osservatori è stato prepensionato con la dura repressione delle proteste che ha prodotto una draconiana legge di sicurezza nazionale che ha cancellato l’opposizione pro-democrazia sia in parlamento sia nelle strade. Nel mirino sono via via entrati i media indipendenti, come dimostra l’arresto di Jimmy Lai di Apple Daily, ma anche qualsiasi figura di opposizione come il cardinale Joseph Zen. La «vera democrazia» secondo Xi prevede comunque una «giurisdizione completa» di Pechino su Hong Kong, con la città chiamata a «rispettare» la leadership cinese. «Nessuno, in nessun Paese o regione del mondo, permetterà a Paesi stranieri o addirittura forze e figure traditrici di prendere il potere», ha ammonito Xi.
Un modello che non piace a Londra. Boris Johnson ha commentato l’anniversario della restituzione di Hong Kong dicendo che Pechino «non ha rispettato gli obblighi» assunti nel 1997 sull’autonomia della regione amministrativa speciale e che ciò «minaccia i diritti e le libertà degli abitanti di Hong Kong». Aggiungendo che il Regno Unito farà «tutto il possibile per far rispettare alla Cina i suoi impegni». Christopher Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, ha invece definito le autorità locali come «un regime di Quisling» (in riferimento al governo fantoccio norvegese durante l’occupazione nazista) che «ha collaborato nel rendere Hong Kong un’appendice dello Stato di sorveglianza cinese». La risposta di Pechino è stata durissima. «Non ci sono cosiddette premesse da mantenere» ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian, accusando Londra di «mentalità coloniale». Con la stoccata finale: «Alcuni Paesi occidentali continuano a sottolineare l’importanza di democrazia e diritti umani, continuando però a ignorare i loro gravi problemi interni».
Xi chiede a Lee di risolvere le questioni sociali, a partire dall’annoso problema immobiliare, e di garantire «armonia». Il nuovo leader locale è l’ex responsabile della sicurezza, ruolo in cui ha guidato la repressione delle proteste. Da lui ci si aspetta un pugno ancora più duro rispetto a quello della governatrice uscente Carrie Lam. E, ovviamente, fedeltà a Pechino. L’inchino al termine del suo giuramento, pronunciato in mandarino, è un buon inizio.