La Stampa, 2 luglio 2022
Il caso Brittney Griner nel silenzio dell’America
Due mesi fa la domanda degli appassionati di pallacanestro era: «Che fine ha fatto Brittney Griner?». Ora, per tutti gli appassionati di diritti civili, è diventata: «Che fine farà Brittney Griner?». Perché dove sia lo si sa: in un carcere russo, da cui è uscita ieri per la prima udienza di un processo che potrebbe avere la sentenza già scritta ma non ancora letta, con il rischio di una condanna a dieci anni per l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Si è presentata in manette, con il viso tirato, indossando una maglietta con l’immagine di Jimi Hendrix. Due poliziotti hanno confermato in aula le circostanze del suo arresto. Avvenne (ufficialmente, ma non ci sono prove) il 17 febbraio, alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina. La sua detenzione è prorogabile fino alla fine dell’anno. Ci sono due video alle estremità di questi mesi che raccontano come tutto è cominciato e come sta continuando.
Nel primo Brittney Griner è all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, appena atterrata in Russia dove svolge il suo “secondo lavoro”. Gioca in quel campionato quando la Nba femminile si ferma. È considerata una delle più forti cestiste americane, un portento nelle schiacciate. C’è chi dice “un LeBron al femminile”. E aggiunge “ma LeBron non avrebbe bisogno di arrotondare”. Lei sì, anche perché ha famiglie da mantenere. Nel video è completamente vestita di nero: scarpe, pantaloni della tuta e una felpa con il cappuccio e la scritta “Black lives for peace”. Neri anche i capelli, raccolti in treccine, ma soprattutto nero il trolley che trascina. È quello ad attirare l’attenzione dei cani antidroga e degli agenti che li tengono al guinzaglio. Li sovrasta (è 2 metri e 6 centimetri), ma non può che seguirli in uno stanzino dove l’aspetta un funzionario dall’apparenza inflessibile. La valigia viene aperta. Trovano due cartucce per sigaretta elettronica, ma all’interno c’è olio di hasish. La quantità è stata dichiarata ieri al processo: 0,252 grammi la prima, 0,45 la seconda. Le viene detto qualcosa che qualcuno traduce per lei. Scuote la testa ripetutamente. Una sola parola: «No». La porta si chiude.
Si apre invece nell’ultimo video, a distanza di oltre quattro mesi, all’uscita dell’aula giudiziaria. Brittney Griner riappare, scortata da un nugolo di agenti e, di nuovo, da cani. Ripete lo stesso gesto con la testa. Non osa pronunciare una sola parola, ma se potesse sarebbe: «No». È sempre torreggiante, ma non sfidante. Triste, invece. Forse sfiduciata. Porta un paio di occhiali tondi dietro sembra lanciare un Sos. È la certificazione delle parole di sua moglie Cherelle (che ha preso lo stesso cognome): «È un essere umano, è là da sola, è terrorizzata».
Che cosa è successo in tutto questo tempo? Per due mesi il Dipartimento di Stato americano è rimasto in silenzio, come nulla fosse accaduto. Trattative sotterranee? Forse. La voce del possibile scambio con un trafficante d’armi russo detenuto negli Stati Uniti è stata però smentita. Provate a immaginare avessero arrestato LeBron. Quante volte un articolo simile a questo sarebbe stato in prima pagina su tutti i giornali del mondo? Quasi trecentomila persone hanno firmato una petizione per chiedere al governo americano di darsi una mossa. I Phoenix Suns hanno messo le iniziali B.G. sul parquet. Cherelle, dopo mesi di comunicazioni per lettera, ha avuto, il 18 giugno, l’autorizzazione per chiamarla finalmente al telefono, ma all’ambasciata americana a Mosca, che doveva fare da tramite, non avevano in quel momento personale al centralino. Brittney è tornata in cella, dove non può parlare con nessuno perché nessuno la capisce e ha scritto un’altra lettera, che concludeva così: «Non mi lascerò spezzare».
Non ha un carattere facile. Nata a Houston 31 anni fa, a 22 si dichiarò gay generando sconcerto nella famiglia. Il padre l’allontanò per questo. La sua unione con una collega fu così tempestosa da portare entrambe in ospedale per ferite e contusioni. All’uscita ebbero la pessima idea di sposarsi e concepire due gemelli in vitro. Il giorno dopo l’annuncio Brittney Griner chiese l’annullamento del matrimonio, negato. Poi divorziarono e a lei spettò il mantenimento della ex e dei figli. Di qui la necessità di guadagni extra che andò a cercare prima in Cina, poi in Russia. Si risposò con Cherelle. Ha vinto titoli sia in America che all’estero, un oro olimpico, ma non ha mai smesso di schierarsi controvento. Nel 2020 chiese di non far più suonare l’inno nazionale prima delle partite per protesta contro l’uccisione di Breonna Taylor da parte dei poliziotti che stavano perquisendo la sua abitazione (un caso inizialmente dimenticato e riportato alla luce soltanto dopo l’uccisione di George Floyd).
Ho parlato della sua vicenda con il professor David Hollander, che tiene alla New York University un originale corso intitolato: “Come la pallacanestro può salvare il mondo”. Gli ho chiesto come possa il mondo salvare questa giocatrice di pallacanestro: «Qui non c’entra lo sport. Qui si tratta di salvare una vita finita nella rete di un conflitto globale e complicato. Dovremmo salire tutti quanti sui tetti a urlare per chiedere il suo rilascio. Purtroppo abbiamo a che fare con un indiavolato che ci porta alla soglia dell’estinzione nucleare». Resta la domanda (retorica): perché l’America non è sul tetto a urlare per la liberazione di Brittney Griner?