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 2022  luglio 02 Sabato calendario

Storia de "La forza del destino"

Background storico
1859. Mentre l’Italia inizia a combattere le sue battaglie nella Seconda Guerra d’Indipendenza, Verdi ha già vinto metà delle sue: il felice successo del Ballo in maschera, il tanto atteso matrimonio con la Strepponi (con buona pace dei bigottissimi suoi compaesani) e una breve “vacanza” nella sua casetta di Sant’Agata, dove passava il tempo tra il focolare del nuovo nido coniugale e qualche battuta di caccia. Due anni dopo, con metà Italia quasi unificata (mancavano ancora il Veneto e il Lazio), oltre alle lettere di Cavour che gli scongiurava di candidarsi per le elezioni della neonata camera dei deputati, Verdi ricevette anche la doppia missiva dell’agente teatrale Corticelli che presentava la richiesta del tenore Enrico Tamberlick, il quale chiedeva al maestro di comporre un’opera per il Teatro Imperiale di San Pietroburgo.
Copertina bilingue del libretto della prima dell’opera 
Verdi, affascinato dalla commissione e dalla città così lontana dalla “sua” Italia, propose al tenore un’opera basata sul Ruy Blas di Hugo, ma il soggetto venne scartato dalla Censura russa; frustrato, Verdi allora ripiegò su un drammone molto famoso, di origine spagnolo: Don Alvàro o la Fuerza del Sino, del Duca di Rivas. La trama dell’opera (complicata al pari di quella di Trovatore) affascinò Verdi, che mandò il soggetto a Piave: si tratta, questa, dell’ultima collaborazione tra il compositore e il suo più prolifico librettista, stressato e malato da tempo. La rottura dei loro rapporti non sarà brusca come quella con Solera, dato che Verdi si accollerà la spesa dei soldi per le cure mediche dell’amico fino alla sua morte.
A dicembre del 1861, finalmente, Verdi e consorte partirono alla volta della Russia: dopo un viaggio per mezza Europa (Torino, Parigi, e infine Pietroburgo), l’opera, tuttavia, non può andare in scena, per colpa dell’indisposizione della primadonna, Emilia La Grua. Verdi, frustrato e infreddolito, si vede negare l’annullamento del contratto, e l’opera viene rimandata alla stagione successiva: il compositore si “consolò” con la composizione, a Londra, del suo Inno delle Nazioni, su libretto di Arrigo Boito (futuro suo collaboratore).
A settembre del 1862, dopo l’ennesima pausa a Sant’Agata, i coniugi Verdi ripartono per San Pietroburgo, e, finalmente, il 10 novembre, La forza del destino vede la sua prima, al Teatro Imperiale. Il successo è garantito, gli interpreti (Tamberlick nel ruolo del protagonista, affiancato dal soprano Caroline Barbot e dal baritono Francesco Graziani) piacciono, l’allestimento pure, ma non mancano le critiche dei “tradizionalisti” russi, irritati per l’ingerenza dell’opera italiana sui palcoscenici esteri.
Qualche anno dopo, Tito Ricordi propose di far tornare Verdi sul palcoscenico della Scala con l’opera russa: dopo quasi vent’anni, dalla rottura avvenuta in seguito al debutto della Giovanna d’Arco, Verdi sarebbe ritornato a dirigere una sua opera nel maggiore teatro di Milano. L’occasione fu adeguatamente sfruttata dal compositore per rivedere il finale (a suo dire, troppo catastrofico): il suicidio finale di Alvaro venne sostituito da Antonio Ghislanzoni (futuro librettista di Aida, essendo ormai morente il buon Piave) con un più catartico terzetto tra il tenore, il soprano e un basso, nel quale il Padre Guardiano benediceva l’anima di Leonora morente, e Alvaro chiedeva perdono a Dio (ulteriori modifiche furono la sostituzione del più breve Preludio con la più nota Sinfonia e un’inversione delle scene al Finale Terzo). Protagonisti Teresa Stolz e il tenore Tiberini, sotto la direzione di Angelo Mariani, la Forza trionfò alla Scala il 27 febbraio del 1869.
Il tenore Enrico Tamberlick, primo Don Alvaro 
L’opera
La fosca e rocambolesca vicenda dell’opera copre un arco narrativo di circa dieci anni, in Spagna (Siviglia e l’Andalusia) e l’Italia (Velletri): l’ambientazione temporale dell’opera è la metà del XVIII secolo.
Tra Leonora di Vargas (soprano) e Don Alvaro (tenore), figlio di un soldato spagnolo traditore e di una principessa indiana, scorre un amore impossibile, osteggiato dalla famiglia di lei: la loro fuga notturna viene infatti scoperta dal padre, il Marchese di Calatrava (basso). In un tentativo di difendere l’onore dell’amata, e per dimostrate di non avere cattive intenzioni, Alvaro si disarma gettando la pistola a terra, ma dall’arma parte un colpo fatale che uccide di colpo il Marchese.
Negli ultimi istanti di vita, il Marchese riesce a ottenere dal figlio Carlo (baritono) la promessa di una vendetta: la morte di Leonora e di Alvaro. I due, intanto, capendo che stando insieme sarebbero stati un bersaglio troppo facile, si separano: Leonora prende i voti ed entra nel Monastero della Vergine degli Angeli, vivendo come un eremita nelle grotte; Alvaro tenta la fortuna in guerra, arruolandosi nell’esercito spagnolo durante la Guerra di Sucessione Austriaca.
A Velletri, dove Alvaro spera invano di morire in battaglia, giunge anche Carlo, che, ignorando la sua identità, dapprima stringe amicizia con l’ignoto commilitone, per poi riconoscerlo, grazie a un ritratto di Leonora che Alvaro conserva, come l’assassino del padre: Alvaro, braccato, fugge dai campi di battaglia, e prende anche lui i voti, nello stesso convento dove si è rifugiata Leonora.
Carlo, dopo anni di ricerche, raggiunge Alvaro anche lì, e, insultandolo, riesce a coinvolgerlo in un duello, proprio vicino alle grotte dove si è isolata Leonora: Carlo viene mortalmente ferito, e il rumore del duello richiama la donna. I due fratelli si riconoscono, e Carlo, prima di morire, riesce a ferire mortalmente la sorella. Leonora, dopo aver ritrovato l’uomo amato da tempo, spira tra le braccia di Alvaro.
Musica e maschere
Sinistra è la fama che aleggia su quest’opera, che si è guadagnata la triste fama di “opera jettatrice”, basandosi su superstizioni teatrali ed esperienze realmente accadute (l’episodio più tristemente celebre è la morte del baritono Leonard Warren, deceduto per emorragia cerebrale, mentre stava cantanto proprio la Forza al Metropolitan di New York). Tale fama le è stata affibbiata anche per la sua trama: i protagonisti non riescono a fuggire dal proprio destino, che incombe tremendo e magnetico sopra di loro. Tale ineluttabilità della sorte è ben resa dal ricorrente leitmotiv del destino, presente nella Sinfonia, e ricorrente, soprattutto, prima due romanze dedicate a Leonora (la preghiera dell’Atto Secondo “Madre pietosa, Vergine” e l’invocazione del Quarto, “Pace, pace, mio Dio!”).
Enrico Caruso, Rosa Ponselle e José Mardones fotografati nel terzetto finale dell’opera 
La tragedia dei tre personaggi principali viene ingigantita dalle atmosfere gaie e ciarliere che avvolgono le altre scene dell’opera in cui non sono presenti: esclusa l’ingombrante presenza del Pade Guardiano (il frate che accoglie Leonora nel convento e che accompagna la morte di quest’ultima accanto ad Alvaro), consona con il carattere dell’opera, le scene di guerra e della locanda sono accompagnate dalla sbarazzina presenza di Preziosilla, giovane zingarella, e dai buffi rimbrotti di Fra’ Melitone, confratello del Padre Guardiano, baritono buffo catapultato da qualche opera rossiniana nell’opera verdiana. Sopratutto questi due personaggi, complessivamente inutili per l’economia dell’opera (ma impreziositi da alcuni brani di grande interesse, come il “Rataplan” intonato da Preziosilla, o l’aria buffa di Melitone che apre l’Atto Quarto), rendono ancor più “shakesperiana” l’opera, e, con le loro risate e i loro caratteri (tipici delle maschere della Commedia dell’Arte), nobilitano le sofferenze di Leonora e Alvaro.
Tre buoni motivi per cui vale la pena ascoltarla
per la superba e famosa Sinfonia che apre l’opera, che contiene il primo grande leitmotiv verdiano (dopo il “tema della maledizione” di Rigoletto e quelli del Ballo in maschera), onnipresente ed inquietante;
per l’Atto Secondo, che passa dall’allegria della locanda alla religiosità del convento: autentica gemma è la celebre preghiera “La Vergine degli angeli”, intonata da Leonora e dai frati, posta a chiusura dell’Atto;
per Alvaro, tormentato personaggio, in bilico tra i dèmoni del Corsaro e la malinconia del Trovatore (nella sua prima rappresentazione italiana, infatti, l’opera venne intitolata Don Alvaro). Tenori del calibro di José Carreras, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Placido Domingo e Richard Tucker hanno nobilitato questo ruolo.