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 2022  luglio 01 Venerdì calendario

Elogio di Amalia Guglielminetti

Guido Gozzano scrisse che i sonetti di Amalia Guglielminetti (1881-1941) erano “superiori a quelli di Gaspara Stampa”. E si racconta che Gabriele D’Annunzio, nel- l’inverno del 1912, la celebrò come “l’unica poetessa che abbia oggi l’Italia”. Giuseppe Antonio Borgese, poi, l’autore di Rubè, la chiamò “Saffo dalle chiome viola”, osservando che “costei è un’artista di tale strepitosa forza che bisogna lasciarla sola”.
La stessa Amalia, nella raccolta di versi Le seduzioni, aveva scritto: “Io vado attenta, perché vado sola, e il mio sogno che sa goder di tutto, se sono un poco triste mi consola”. Nel suo testamento, reso noto da La Stampa nel dicembre del 1941, espresse proprio la volontà di essere sepolta in una una tomba a forma di piramide con questa iscrizione: “Essa è pur sempre quella che va sola”. Quell’andare “sola”, però, significava procedere liberamente per la sua strada di donna e di letterata, di poetessa e di narratrice di notevole talento, che aveva sostenuto in altri versi il suo credo: “Vivere si deve. Ama e combatti e odia e piangi e sali. La vita è chiusa nel tuo pugno breve”.
Sola rimase, certo, ma nel senso di essere sostanzialmente dimenticata nel corso del tempo, o ricordata e offuscata quale immagine di vamp, di donna spregiudicata e fatale degli ultimi fuochi della Belle Époque, oltre che per l’amicizia con Gozzano e il legame tempestoso con lo scrittore Pitigrilli, al secolo Dino Segre. Lo aveva previsto lei stessa: “Io penso che si confonda un po’ troppo la mia persona con la mia poesia”, scrisse a Gozzano, con il quale visse un rapporto assolutamente platonico, sebbene fosse stato di grande coinvolgimento affettivo per entrambi. Ma Amalia era molto più di una mera icona art decò, basta leggere le raccolte di sonetti che le diedero fama, da Le vergini folli del 1907 a Le seduzioni e a L’insonne, oltre ai romanzi, alle novelle, agli articoli per i giornali. E leggere in particolare quei versi di una perfetta classicità, soffusi da una malinconia leggiadra, dà la misura esatta del suo valore. Come avevano ben compreso Borgese, D’Annunzio, Gozzano o il critico Dino Mantovani, il biografo di Ippolito Nievo.
A più di ottant’anni dalla sua scomparsa, pertanto, è doveroso riaprire un discorso sulla Guglielminetti “che le dia pieno riconoscimento come scrittrice”. Lo annota Maria Vittoria Vittori, curatrice della nuova edizione di La rivincita del maschio, in libreria da oggi con 8tto Edizioni a un secolo dalla prima uscita. Rammenta la Vittori che, apparso a puntate “tra il 1920 e il 1921 su Il Secolo Illustrato, il romanzo venne pubblicato nella versione definitiva dall’editore Lattes nel 1923, suscitando clamore e accuse di immoralità”.
Censurata e accusata per i suoi libri anticonformisti, Guglielminetti morì comunque salutata dalle autorità del fascismo; addirittura Alessandro Pavolini, ministro della Cultura popolare, inviò un telegramma di cordoglio. Tuttavia l’autrice rappresentò il contrario della donna fascista, tutta casa, patria e famiglia. Lo dimostra anche La rivincita del maschio. Cioè una storia che si svolge tra Torino, Genova e la Riviera ligure e mette in campo come protagonisti, insieme a una fitta schiera di comprimari e comparse, Ugo di Sant’Agabio e quattro donne: Reré Lajoie, Nora Bonis, Bianca Moresi e Myra Scauri.
In apparenza pare una vicenda in stile Pitigrilli, quello di Cocaina. Dove le protagoniste, come la canzonettista di cabaret Reré, indossano “un graziosissimo tailleur fantasia di velluto color oliva guarnito di pelo di scimmia e calzava altissimi stivaletti d’antilope grigia che le giungevano a metà della gamba, nel punto ove finiva la corta gonna di velluto a pieghe profonde. Portava un fantastico berretto in piume lisce d’egual colore”. E dove il predatore seriale Ugo ama “bensì il giuoco, ma non vi avrebbe certo posposto e sacrificato la preda improvvisa e perciò più preziosa che la mancanza dei suoi compagni di poker gli aveva procurato”: la donna, appunto.
In realtà, Amalia orchestra la narrazione di una vera rivolta femminile, fino a un tragico finale. Le donne del romanzo, infatti, “scoprono i sintomi di un’emozione ancora in parte sconosciuta, ma che affiora potente in superficie, ed è composta da diversi elementi: la fatica e la stanchezza di sottoporsi allo sguardo altrui, il desiderio di affrancamento dalla valutazione maschile, il desiderio di piacersi per come sono, per come sentono di essere, liberamente”.