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 2022  giugno 29 Mercoledì calendario

La tortura per Sartre

Sapete quel che si dice a volte per giustificare i carnefici: bisogna pur ridursi a torturare un uomo se dalla sua confessione possono dipendere centinaia di vite umane. È un bell’espediente da Tartuffe.
Alleg, come Audin, non era un terrorista. Tanto è vero che è stato accusato di «attentato alla sicurezza dello Stato e di ricostituzione di una lega sciolta». Era per salvare delle vite umane che gli si bruciavano i capezzoli e i peli del pube? No, si voleva soltanto estorcergli l’indirizzo dell’amico che lo aveva ospitato. Se avesse parlato, si sarebbe messo un comunista di più sotto chiave: ecco tutto. E poi si arresta a casaccio: qualsiasi musulmano è «interrogabile» a piacere: la maggior parte dei torturati non dicono nulla perché non hanno nulla da dire, a meno che non acconsentano, per non soffrire di più, a fare una falsa testimonianza o accusarsi gratuitamente di un delitto rimasto impunito, del quale diventa comodo accusarli. In quanto a quelli che potrebbero parlare, si sa bene che tacciono. Tutti, o quasi tutti. Né Audin, né Alleg, né Guerroudji hanno disserrato i denti. «Ha comunque guadagnato una notte per dar tempo ai suoi amici di tagliare la corda», constata uno dei carnefici dopo il primo interrogatorio di Alleg. E un ufficiale, qualche giorno piú tardi: «Da dieci o da quindici anni sanno che se vengono presi non devono dire nulla. Non c’è niente da fare per togliere loro quest’idea dalla testa».
Forse volevano parlare soltanto dei comunisti; ma credono forse che i combattenti dell’Aln (l’Armata di Liberazione Nazionale) siano di un’altra tempra? Queste violenze non rendono: gli stessi tedeschi, nel 1944, avevano finito per convincersene; costano vite umane, e non ne salvano.
L’argomento, tuttavia, non è del tutto falso, e comunque ci illumina sulla funzione della tortura, istituzione clandestina o semi-clandestina indissolubilmente legata alla clandestinità della resistenza o dell’opposizione.
In Algeria, il nostro esercito è schierato in tutto il territorio. Abbiamo per noi il numero, il denaro, le armi. Gli insorti non hanno nulla, salvo la fiducia e l’appoggio di una gran parte della popolazione. Siamo stati noi, nostro malgrado, a dare a questa guerra popolare attentati nelle città, imboscate nelle campagne; il Fln non ha scelto lui questa forma di attività, fa quello che può e basta. Il rapporto fra le sue forze e le nostre lo costringe ad attaccarci di sorpresa: invisibili, inafferrabili, inattese, devono colpire e scomparire, per non essere sterminate. Di qui il nostro malessere: lottiamo contro un avversario segreto, una mano lancia una bomba in una strada, una fucilata ferisce un nostro soldato, si accorre: non c’è più nessuno. Più tardi, nei dintorni, si troveranno dei musulmani che non hanno visto niente. Tutto è legato: la guerra popolare, guerra dei poveri contro i ricchi, è caratterizzata dallo stretto vincolo delle unità insurrezionali con la popolazione. Per l’esercito regolare e i poteri civili, questo nugolo di miserabili diventa il nemico quotidiano, innumerevole. Le truppe d’occupazione si preoccupano del mutismo che esse stesse hanno generato. Si indovina un’ inafferrabile volontà di silenzio, un segreto circolare, onnipresente.
I ricchi si sentono braccati in mezzo ai poveri che tacciono. Imbarazzate dalla loro stessa potenza, le «forze dell’ordine» non possono opporre nulla alle guerriglie, se non i rastrellamenti e le spedizioni punitive, nulla da opporre al terrorismo, se non il terrore. Qualche cosa è nascosto: in qualsiasi luogo e da tutti. Bisogna farli parlare. La tortura è una vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare a una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori di portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo. Se applica la questione, dovrà sempre ricominciare.
Ma nemmeno questi silenzi, queste paure, questi pericoli sempre invisibili e sempre presenti possono giustificare completamente l’accanimento dei carnefici, la loro volontà di ridurre all’abiezione le loro vittime, questo odio dell’uomo, infine, che si è impadronito di loro senza il loro consenso e li ha plasmati.
Uccidersi a vicenda, è la regola; ci si è sempre battuti per interessi collettivi e particolaristici. Ma nella tortura, questo strano match, la posta sembra essere totale: è per il titolo di uomo che il carnefice si misura col torturato, e tutto si svolge come se i due non potessero appartenere insieme alla specie umana. Scopo dell’interrogatorio non è soltanto quello di costringere un uomo a parlare, a tradire: bisogna che la vittima si autoqualifichi bestia umana attraverso le sue grida e la sua sottomissione: agli occhi di tutti e davanti a se stessa.
Bisogna che il suo tradimento la spezzi e la tolga definitivamente di mezzo. Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è stato costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo. Questa radicalizzazione della posta è uno dei caratteri del nostro tempo. In nessuna epoca la volontà di essere liberi è stata più cosciente e più forte: in nessuna epoca l’oppressione è stata più violenta e meglio armata.
In Algeria le contraddizioni sono irriducibili: ognuno dei gruppi in conflitto esige l’esclusione radicale dell’altro. Abbiamo preso tutto ai musulmani e poi abbiamo proibito loro persino l’uso della loro lingua. Memmi, lo scrittore algerino, ha dimostrato come la colonizzazione si realizza attraverso l’annullamento dei colonizzati. Essi non possedevano più nulla, non erano più nessuno: abbiamo liquidato la loro civiltà rifiutando loro la nostra.
Avevano chiesto l’integrazione, l’assimilazione e noi abbiamo risposto di no: grazie a quale miracolo si potrebbe mantenere il super sfruttamento coloniale se i colonizzati dovessero godere degli stessi diritti dei coloni? Sotto-alimentati, incolti, miserabili, il sistema li respingeva spietatamente ai confini del Sahara, ai limiti dell’umano; sotto la spinta demografica il loro tenore di vita si abbassava di anno in anno. Quando la disperazione li ha indotti alla rivolta, questi sotto-uomini non avevano altra scelta che morire o tentare di affermare la loro umanità contro di noi: hanno respinto i nostri valori, la nostra cultura, le nostre pretese superiorità, e in blocco hanno rivendicato il titolo di uomini e rifiutato la nazionalità francese. —