la Repubblica, 29 giugno 2022
La marcia su Roma (sesta puntata)
Venivano avanti nella notte, col viso dipinto di nero. Tre squadre speciali che si erano staccate dai quattrocento uomini in marcia verso Bologna da Modena e Ferrara: adesso camminavano curvi, schermati dagli alberi e protetti dall’illuminazione spenta sulle strade, finché entrati nella frazione Caselle di Crevalcore arrivò l’ordine del silenzio assoluto, al momento di separarsi e attaccare gli obiettivi. In cinquanta raggiunsero subito la casa del socialista Primo Barbieri. Tre latte di benzina versate davanti alla porta, sulle finestre, la scala e il muro. Poi il fuoco e la fuga. Quasi nello stesso momento la seconda squadra gettava un fiammifero sulla benzina sparsa sopra la calce dell’abitazione di un altro socialista, Olindo Anderlini. Mentre si sentivano le prima grida di allarme e la luce si accendeva nelle case, con le famiglie che si affacciavano alle finestre, si alzarono le fiamme del terzo incendio, appiccato alla Casa del Popolo. Chi provò a chiamare i pompieri si accorse che i telefoni erano muti: qualcuno aveva tagliato i fili. Non serviva la firma e la rivendicazione, tutto era chiaro. Il paese in strada guardava il fuoco fascista, che nel mese di giugno bruciava l’estate italiana del 1922.
Non era una semplice “adunata” che raccoglieva gli squadristi emiliani nella piazza di Bologna, ma una prova di forza senza precedenti contro la tradizione rossa della città, contro il prefetto e contro lo Stato per imporre la legge del fascismo. Rapidamente, le camicie nere erano passate dalla manifestazione all’occupazione, dalla dimostrazione all’insurrezione. Pezzi d’Italia fascista si ribellavano alla storia del luogo e alla legalità del Regno, prendevano il comando della piazza, ingabbiavano le istituzioni, sperimentavano il dominio. Un progetto eversivo, un anticipo di rivoluzione, la prova generale di quel che sarà: per spaventare il popolo e il potere. L’ora era ormai prossima. Per strada, passando tra paesi e cascine, l’eversione incolonnata che sperimentava se stessa scaricava la furia della violenza accumulata da mesi contro le associazioni proletarie in disarmo. Incendiato il consorzio di Molinella, bruciato il circolo operaio a Sala Bolognese, bombe alle due di notte a Sesto Imolese, completamente distrutta la cooperativa “La Sociale”, assaltata la Camera del lavoro, attaccato il panificio comunale in via dei Mille, sfigurati gli uffici della Federazione dei lavoratori della terra.
Un concentrato di furore e di arbitrio che è già una confisca di potere, una sospensione del diritto. L’occasione è la morte del caposquadra fascista Celestino Cavedoni, colpito negli scontri secondo le camicie nere, e per le autorità ucciso da una bomba che stava lanciando contro i socialisti. Ma il vero obiettivo è Cesare Mori, il prefetto che prendendo sul serio gli ordini di imparzialità del presidente del Consiglio Facta, fa intervenire la forza pubblica contro le incursioni squadriste e soprattutto vieta con un decreto l’importazione di mano d’opera dalle regioni vicine. I fascisti pensano che sia un modo per favorir e “i rossi”, cioè le Leghe e il sindacato con cui sono in lotta e in concorrenza. Mori diventa il diavolo, il “viceré”, il servo dei socialisti. Un nuovo bersaglio asserragliato nel palazzo del governo che impersona lo Stato ottuso, insensibile, debole e tuttavia ostile. Inutilmente il Papa si augura che gli animi di tutti «siano affratellati in un solo amplesso di fede e di amore, affinché sulla terra già allagata di sangue e di lacrime spunti la bella iride di pace». Ma a Bologna tutti gli ingredienti dell’insurrezione si stanno radunando in piazza e il fascismo incita allo scontro. A nome del Direttorio, Leandro Arpinati il 27 maggio scatena gli squadristi incitandoli a imporre la loro volontà con qualsiasi mezzo, dopo averli esonerati da ogni residuo rispetto della legalità: «I social-comunisti hanno ripreso la lotta contro di noi con agguati e imboscate. Voi, fascisti, in questo momento siete liberi da ogni vincolo di disciplina. Avete anzi l’obbligo di ricordare che ogni esponente dei partiti sovversivi è responsabile di questa situazione e ogni circolo o bettola cooperativa è un covo ove si organizzano gli agguati contro di voi». La polveriera di San Nicolò, col beneplacito silenzioso dell’autorità militare, fornisce allo squadrismo le bombe Sipe in gran quantità. Scoppiano subito, contro la cooperativa di San Rufillo e il circolo di Cà de fiori, inaugurando la settimana di passione di Bologna.
L’uomo che individua nella città i germi dell’eversione, li raccoglie e li coltiva per testare la portata insurrezionale del fascismo è Italo Balbo, ras di Ferrara. Ha appena 26 anni, ma ha avuto il tempo nella convulsione dell’epoca di combattere sul Grappa da ardito volontario, di diventare aviatore, di seguire da volontario il generale Ricciotti Garibaldi, di bloccare addirittura Mussolini contrastando platealmente la sua proposta di pacificazione coi socialisti. Ora offre al Duce la simulazione perfetta di una macchina insurrezionale provata sul campo, nel cuore della pianura padana rossa. C’è in Balbo l’avventurismo fascista inebriato dal culto dell’azione, ma c’è anche la tecnica sovversiva dispiegata per la prima volta senza veli. «I comunisti – spiega – tentano una riscossa in grande stile, da parte fascista occorre uscire dal circolo tragico e passare a un’azione definitiva: si marcia verso l’epilogo rivoluzionario del fascismo, che non può essere altro che la conquista del potere. Lancio l’ordine di mobilitazione alle province di Ferrara, Bologna, Modena e Mantova. Bologna prende l’aspetto di guerra».Inizia l’occupazione, si blocca il centro cittadino, si fermano i tram, entrano a Bologna le squadre che arrivano a piedi da tutta la regione, sfilano davanti a Balbo, Arpinati, Dino Grandi, Gino Barconcini e al segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista Michele Bianchi, appena arrivato da Milano. Il centro è in mano loro. Ventimila fascisti fischiano il “viceré” protetto in prefettura dalle guardie regie e dagli squadroni di cavalleria, cantano “Giovinezza”, applaudono gli scontri nel carcere di San Giovanni in Monte dove 60 detenuti squadristi sfasciano le porte di quattro grandi celle e danno fuoco ai materassi. Balbo arringa le guardie regie, spiega che sono costrette a vivere «in una situazione umiliante», sobilla gli ufficiali dell’esercito. Quando parte la carica degli squadroni a cavallo i fascisti agitano i fazzoletti bianchi, fanno scoppiare i petardi e gli animali si imbizzarriscono, ingovernabili. Una colonna di carri ha appena scaricato grandi balle di paglia pressata sotto i portici di via Indipendenza, del palazzo del Podestà, di via Farini, del Pavaglione. Le camicie nere dormono qui, dopo un rancio con scatolette di carne, pane e vino, applaudendo quando arrivano notizie dell’incendio al pian terreno della cooperativa sociale alla Bolognina, degli scontri a colpi di moschetto a porta San Vitale, della bomba lanciata alle 19,45 nel caffè di via Miramonte «covo di elemento torbidi». Inni patriottici, cori che invocano la destituzione di Mori, il «prefetto asiatico», il «lurido questurino», «Mori, Mori, devi morire». Poi all’una di notte, una tromba suona il silenzio ed esce la ronda, fino alle sette del mattino.È una situazione rivoluzionaria talmente arroventata da allarmare la borghesia, che vede l’ordine sospeso a Bologna, i poteri legittimi confiscati, la violenza padrona, lo Stato sotto ricatto. «Ora il governo non può cedere – scrive il— finché decine di migliaia di fascisti sono accampati in Bologna con atteggiamenti di minaccioso antagonismo ai poteri dello Stato». Le squadre – aggiungeLa Stampa— «si sono mobilitate come un’organizzazione armata, accampata contro lo Stato e dentro lo Stato, per più giorni padrone assolute di una delle maggiori città d’Italia». Mussolini osserva, controlla, oscilla e infine interviene, spezzando un assedio che non ha sbocco: «Cari amici – scrive ai fascisti di Bologna – bisogna sospendere per un tempo che sarà assai breve la vostra magnifica azione. Non dobbiamo estenuare le nostre superbe milizie. Con la stessa disciplina della vostra mobilitazione sono certo che obbedirete al mio ordine. Questo esempio farà epoca nella storia italiana. Prendo formale impegno, nel caso che si rendesse necessaria una ripresa dell’agitazione, di venire tra voi a capeggiarla. Ma avrà allora ampiezza più vasta e più lontani obiettivi.Conto su di voi e vi saluto». Poi un telegramma privato del Duce a Balbo e Grandi: «Obbedendo oggi, acquistate il diritto di comandare domani, per le maggiori fortune della Patria. Vi abbraccio tutti, Capi e gregari».Bologna si svuota, anche duemila ciclisti giunti dal Ferrarese voltano le biciclette fasciste e ripartono. «Siamo soprattutto dei soldati», dice Grandi, «ubbidiamo»: «Come un sol uomo», annuncia inorgoglito ilPopolo d’Italia.Balbo rivela un metro di giudizio personale e segreto, per misurare lo spirito rivoluzionario del partito: «A me preme soprattutto la buona prova delle squadre. La truppa volante si è spostata dal suo paese, ha ubbidito a Capi sconosciuti, ha dormito sulla paglia, ha mangiato quel che capitava, si è ingaggiata contro reparti armati. Questa grande manovra può essere ripetuta in proporzioni più vaste nel momento della rivolta ai poteri costituiti. Prova generale della rivoluzione». Poi, la conclusione: «Il fuoco non spaventerà domani i fascisti. È quanto mi basta».Ma il fuoco su cui soffiano i gerarchi ormai è difficile da domare. Lo stesso Mussolini, svuotata Bologna, sembra abbagliato: «I professionisti della Chiesa rossa, come naufraghi che cominciano a bere, si afferrano a tutte le travi, pur di salvarsi. Ciò che è accaduto a Bologna prova a esuberanza che se si mollassero un poco le briglie alle camicie nere sarebbe assai difficile rintracciare un solo comunista in tutta la penisola. Solo uno stato di esaltazione mistica può operare taluni prodigi, questo spettacolo di consacrazione luminosa di una fede». Sotto la febbre di questa possessione, pare impossibile che il Paese possa fingere una quotidianità ordinaria, mimare una vita normale. Eppure i sogni sembrano quelli di un’estate tranquilla, nonostante il ribollire del Vesuvio con la lava che esce dai tre coni eruttivi tra fumo e lapilli.Si aspetta in particolare l’estrazione della grande tombola nazionale fissata per il 28 giugno a Roma, dopo che le cartelle con i numeri sono state vendute a due lire in tutto il Regno, per inseguire il premio di 425 mila lire diviso tra la cinquina (25 mila), la prima tombola a 200 mila, la seconda a 20 mila, poi 10, quindi 5, fino al premio di consolazione di 20 mila lire. A New York il senatore Guglielmo Marconi annuncia che il telegrafo senza fili entro breve tempo riuscirà a far fare il giro del mondo ai suoi messaggi, fino a quel momento incapaci di andar oltre le 12.200 miglia. Si dice che i primi apparecchi cinematografici siano stati montati sui treni e sui piroscafi: e tre mesi di lavoro nei cantieri di Palermo hanno arredato il “Giulio Cesare”, colosso della Navigazione Generale, come una villa italiana del Settecento con volte affrescate, fontane di marmo scolpite, arazzi e vetrate, in partenza il 24 giugno da Genova per arrivare dopo 13 giorni a Buenos Aires. Ma nella scia dell’ammiraglia, salpadai porti italiani l’emigrazione, stipata sul vapore “Presidente Wilson” da Trieste a New York, sul “Belvedere” per il Sudamerica, sul “Caserta” da Genova al Canada, sul “Conte Rosso” che promette di attraversare l’Atlantico in 9 giorni.Per chi rimane in patria è arrivato il vero grammofono a un prezzo che va dalle 590 alle 12 mila lire, e “La Voce del Padrone” si è assicurata l’esclusiva di artisti come Gigli, Caruso, Patti, Tetrazzini e Ruffo, mentre la Remington annuncia la macchina da scrivere portatile, con tastiera universale, e gli stabilimenti Farina di Torino presentano due carrozzerie speciali di gran lusso, una “Limousine Super coupé” e una “Torpedo” a quattro posti, coi parafanghi stampati in un solo pezzo. Un vestito da uomo costa da 95 a 425 lire, però col panciotto, in pura lana inglese; un tailleur in gabardine foderato 290; un costume da marinaio per ragazzo in tela rigata, doppio colletto, polsini e cravatta blu, 29; un panama di importazione diretta, formato grande, 18,75; un paio di scarpe basse per signora in chevreaux nero con punta di vernice 99 lire. Gli annunci non rivelano l’inquietudine del Paese: le prefetture rendono noto, come a ogni stagione, il regolamento per la monta dei cavalli, lo sciroppo di Catramina assicura di vincere la tosse asinina, la Chinina Migone anticanizie promette di sviluppare barba e capelli e di riportarli al colore originario, il “Thermogène” garantisce di combattere freddo e umidità col suo calore “morbido come la seta” a 5,50 la scatola, bollo compreso.Spendendo nell’inserzione 1 lira e 40 a parola un «impiegato stabile, quindicimila annue», avvisa da giorni che sposerebbe «distintissima, capace di rendere felice un uomo», mentre un «proprietario romano, istruito, moralità superiore», vorrebbe conoscere scopo matrimonio «signorina 24-32 anni buona, affettuosa, piacente, con dote», e un «ricco trentottenne, bella presenza, colto, sposerebbe signorina 22-32enne, anche povera». Il matrimonio finisce anche nelle preghiere mattutine dei bambini della scuola “Tommaseo” di Vigevano, dove l’insegnante fa recitare agli scolari l’invocazione benedetta («Signore Iddio, fate trovare lo sposo alla nostra maestra») finché il direttore interviene per proibire la supplica, scatenando la protesta della giunta diocesana. Inascoltata e lontana, la dottoressa Ettorina Cecchi insiste con le sue lezioni popolari di “maltusianismo pratico” all’istituto “Pensiero” di Firenze, predicando invano «Amate, e non generate». Alla fine, resta solo il rifugio del tabacco. Ogni italiano adulto spende in sigarette, sigari e pipa 77 lire all’anno al Nord, 73 al Centro, 49 al Sud e 43 nelle isole: ma nella nevrosi politica dominante si fuma di più, tanto che nell’ultimo mese la spesa italiana in tabacco supera di ben 6 milioni lo stesso mese dello scorso anno.Ci vorrebbe una via d’uscita per deviare il percorso del secolo che sta corrompendo se stesso, prima dell’epilogo. Il bivio c’è, diventa visibile proprio all’inizio di giugno e ha un nome preciso: collaborazionismo. Sulla spinta della CGdL, il primo giorno di giugno il gruppo parlamentare socialista rompe l’ortodossia del partito e vota un ordine del giorno in cui si dichiara pronto «ad appoggiare anche un governo che assicuri il ripristino delle libertà pubbliche e della legge». È una svolta imposta dalla necessità, suggerita dall’angoscia di una vera e propria guerra civile, consigliata dal timore della dittatura. Anzi è una bomba. Ma la direzione del partito la disinnesca subito, bocciando l’apertura che potrebbe tagliare la strada a Mussolini, e convoca il Consiglio Nazionale per una resa dei conti definitiva. Ancora una volta, dopo la scissione di Livorno dell’anno prima, la sinistra è paralizzata dal contrasto tra riformisti e massimalisti, le due anime contrapposte in un eterno conflitto che si riproduce in perpetuo.La riunione del parlamentino socialista secondo Pietro Nenni è «straziante», preceduta da una scomunica anticipata per i collaborazionisti da parte di Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti: «Questi propositi non conducono già alla difesa del proletariato, ma al compromesso con la reazione. Vale a dire, al trionfo del fascismo. E la collaborazione con questa o quella frazione della borghesia non rappresenta un rimedio, ma la fine morale del socialismo». Parla D’Aragona: «Se qualcuno vede dei mezzi diversi dall’azione parlamentare per difendere il proletariato, ce li indichi». Insiste Modigliani: «Due anni di rivoluzione a parole hanno prodotto la contro-rivoluzione». Davanti alla spaccatura, l’unica soluzione è convocare nuovamente un congresso, un anno dopo quello di Livorno dove si consumò la scissione: nemmeno l’incalzare della furia fascista fa alzare lo sguardo socialista dal partito al Paese, all’emergenza democratica. La sinistra deve consumare la fatica dei suoi demoni fino in fondo, ad ogni costo. Il Gruppo parlamentaresocialista si sente ormai autonomo, indipendente e, «pur di fronte alle diverse opinioni della maggioranza del partito, riconferma l’indirizzo già approvato», cioè la disponibilità a collaborare con un governo di garanzia democratica. Ma al momento del voto i collaborazionisti socialisti alla Camera – “deplorati” dal Consiglio Nazionale – sono appena 60, la loro forza è ormai insufficiente per cambiare il quadro politico e soprattutto il clima del Paese.Tardi e male, dunque. Nei suoi appunti Nenni vede il socialismo «avviarsi al disastro con gli occhi bendati. Non discute i fatti, non valuta il rapporto di forze, gioca con le parole, offre lo spettacolo dei dottori della Chiesa che disputano sui sacri testi, mentre il loro mondo va in rovina». Liquidatorio Mussolini: «Pietà o schifo, secondo i gusti. Il socialismo italiano non sa cosa vuole, dà l’immagine di un paralitico che balbetta o di un ubriaco che abbraccia un fanale. Tra qualche tempo i socialisti non troveranno più un cane disposto a collaborare con loro». Ma in realtà Il Duce tira un sospiro di sollievo perché il collaborazionismo è abortito, l’unità dei partiti moderati e liberali costruita con il gruppo parlamentare della Democrazia nel 1921 si sta già sfasciando per le ambizioni concorrenti di Nitti e Giolitti, che riprendono la loro libertà di movimento, brancolando come ciechi davanti all’eversione fascista: nell’illusione conservatrice che Il Duce stia facendo il lavoro sporco per consentir loro, al momento giusto, di ereditare un campo d’azione sgombro e ordinato.Quel campo in realtà è ormai recintato dalle camicie nere, con l’autorizzazione a far piazza pulita. «Signori – avverte Mussolini aprendo il 4 giugno il Congresso delle Corporazioni – quando si vuol vincere bisogna sabotare e distruggere il nemico in tutti i suoi ripari, in tutte le sue trincee». La pianura padana è sempre più la fabbrica a cielo aperto dell’eversione. A Crema, dove i contadini entrano in sciopero dopo la mungitura chiedendo il rispetto della convenzione, le bande armate portano 300 uomini dentro la sottoprefettura, mentre altri 2 mila sono in attesa a Cremona, pronti: devastazioni, assalti, spari, caccia ai socialisti e ai popolari. A Rovigo, come denuncia Giacomo Matteotti, «ogni libertà è soppressa, ogni persecuzione è consumata e le violenze fasciste avvengono impunemente per la connivenza delle autorità». A Sarzana il tribunale ha appena assolto i fascisti che hanno assaltato il corteo funebre di un ferroviere socialista. A Cervia ungiovane comunista, Giovanni Collina, è aggredito alle due di notte mentre dorme nel circolo comunista da un gruppo di armati: gli sparano, poi cospargono il corpo di benzina e lo bruciano. A Volta Mantovana, in subbuglio dopo che due squadristi sono rimasti feriti in una mischia coi popolari, deve scendere in campo il vescovo, monsignor Paolo Origo, contro l’allontanamento del parroco don Cesare Ferrari, imposto dagli squadristi con l’accusa al sacerdote di essere un nemico del fascismo. Disarticolata la sinistra, le camicie nere alzano sempre più i manganelli contro gli uomini di don Sturzo, proprio mentre si parla di un’intesa antifascista di governo e Turati addirittura si spinge a cogliere un’affinità politica tra i popolari e i riformisti. Ma i segnali, gli approcci, le speranze restano sospese tra le paure e le diffidenze, nel clima politico confuso del Paese che avanza verso un appuntamento sconosciuto. Tra aggressioni di strada, municipi assaltati, piazze trasformate in accampamenti di un esercito privato, città occupate e soggiogate, camicie nere che si sostituiscono agli scioperanti violentando il mercato del lavoro, un contropotere illegale si è ormai insinuato nella gestione statale per sovvertire l’ordine politico e amministrativo sotto gli occhi dei cittadini, scavalcando il diritto, uscendo dalla legalità, facendosi beffe delle polizie e intimidendo la giustizia. Corrosa dal basso, nelle città capovolte dagli squadristi, la cosa pubblica si sgretola invece di difendersi e reagire, e assiste impotente a questa appropriazione a mano armata di un potere indebito, come uno scheletro vuoto pronto ad andare in pezzi all’urto della prima spinta, ormai vicina. Ma giugno è il momento in cui due poteri contrapposti convivono nel Paese frastornato, con l’Antistato che avverte il tramonto accelerato di ogni autorità legittima e lo Stato che per pavidità della classe dirigente rinuncia giorno dopo giorno alle sue prerogative, incapace di far fronte ai suoi doveri.La democrazia non è presidiata, la cultura liberale passa in minoranza, la sinistra è disarticolata dopo due anni di aggressioni. È il momento. Mussolini dopo aver praticato la sostituzione, con l’«ordine fascista», adesso pretende la successione. «Il fascismo vuole lo Stato» spiega il 25 giugno. Ma come si concilia il suo proposito di restaurare l’autorità dello Stato con la sua azione che prende a bersaglio i massimi rappresentanti di codesta autorità? Si può essere conservatori e sovversivi al tempo stesso? E qui Il Duce introduce la distinzione capitale «tra lo Stato in atto, oggi, e Stato in potenza o in divenire, che è il fascismo». L’equilibrio si spezza definitivamente. «Saremo con lo Stato tutte le volte che si dimostrerà difensore della tradizione e del sentimento nazionale. Ci sostituiremo allo Stato quando si manifesterà incapace di combattere gli elementi di disgregazione. Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere nelle mani di coloro che attentano all’avvenire del Paese».Chissà a che punto siamo, in quel giugno, nella mente insondabile e serena di Luigi Facta. Il Presidente del Consiglio decide la sospensione di tutti i permessi di porto d’armi a Roma e a Firenze. Ma ormai è inutile. «Il reagente magnifico del fascismo sta compiendo l’opera sua chiarificatrice – spiega alla fine di giugno il futuro quadrumviro Cesare Maria Devecchi, deputato torinese e comandante delle squadre d’azione cittadine – e la fanghiglia finalmente precipita in fondo al vaso». Quale fanghiglia? Poche centinaia di metri più in là Il mese fascista che si era aperto con i fuochi notturni a Bologna si chiude nell’acqua a Torino, con un gesto che le camicie nere chiameranno “virile”. Riuniti in piccoli gruppi vicino alla stazione, con una vedetta di guardia sul corso, gli squadristi alle tre di notte passano all’attacco quando i furgoni dellaStampaarrivano per scaricare le copie del quotidiano e consegnarle ai primi treni del mattino in partenza per la diffusione. Bloccano le operazioni, sequestrano i furgoni. Poi aprono il vano di carico, gettano a terra i pacchi dei giornali e li incendiano tra urla e battimani. Quindi dirigono l’ultimo furgone – a passo d’uomo, accompagnandolo in una marcia trionfale – verso il parco del Valentino, dove spingono nel fiume il camioncino con le copie appena stampate del quotidiano. I giornali affondano nel Po insieme con la libertà d’informazione mentre le camicie nere sparano a vuoto nell’aria, celebrando la notte fascista di Torino.